Recensione The Fighter (2010)

Il film di Russell si regge tutto sull'eccelsa interpretazione della coppia Christian Bale-Melissa Leo, meritati Premi Oscar per questi ruoli, e utilizza sapientemente la boxe come metafora delle relazioni umane, per le quali talvolta occorre combattere tenacemente. Ma The Fighter non è un ring action, piuttosto è un'opera complessa, drammatica, intensa e avvincente fino all'ultima immagine.

Vincere ancora

Dicky Eklund era l'orgoglio di Powell, la cittadina in cui ancora abita insieme alla numerosa famiglia formata dalla madre matrona Alice, dal suo secondo marito George, dal figlioletto e da una schiera di sette sorelle. Quando non è sotto l'effetto del crack, l'ex pugile, che si vanta di aver mandato al tappeto il campione Sugar Ray Leonard, allena il fratellastro più giovane Micky, che ha poca fortuna agli incontri e si guadagna da vivere asfaltando la strada. Con l'aiuto della ragazza Charlene, del padre e del buon amico O'Keefe, Micky capisce che è il momento di staccarsi dagli invadenti familiari e tentare la sorte con le proprie forze. Ma gli insegnamenti di Dicky si riveleranno per lui preziosi e il match atteso da una vita per il titolo mondiale dei pesi medi sarà un'occasione per mettere alla prova se stesso e il fratello.


The Fighter è la storia drammatica di due fratelli in competizione sotto l'ala della mamma chioccia e in lotta per ottenere una rivalsa individuale, familiare e sociale. Diretto dal discreto David O. Russell, che si è ispirato alla biografia di Bob Halloran e alla storia vera del pugile "Irish" Micky Ward, il film racconta l'impresa di un giovane e introverso guerriero che riesce a mantenersi pulito in un mondo sporco, fatto di droga, pregiudizi e malignità. Ma a rubargli il posto da protagonista, sullo schermo come nella storia, è il fratellastro più grande, la pecora nera che, malgrado la tossicodipendenza e la vita sregolata sotto gli occhi di tutti, assurge come in un pulp magazine a modello antieroico da seguire.

Il confronto fra i due è il nodo centrale di un'opera che sviscera temi cruciali della sottocultura americana aggregandoli gli uni agli altri come anelli pesanti di una catena guasta e discutibile, dalla manipolazione dello spettacolo, con il documentario della HBO che sbatte sul piccolo schermo la vita nuda e cruda di Dicky ai violenti abusi degli agenti di polizia, che rompono la mano a Micky, arrivato nel mezzo di una rissa di cui però non è responsabile. Di fronte allo scorrere impietoso e avvincente delle immagini che immortalano la miseria e i fallimenti dei vari personaggi, tra cui la stessa Charlene (Amy Adams), mancata campionessa dell'atletica, lo sguardo si carica di riflessioni cupe mentre lo stile registico oscilla tra il docufilm, con i materiali di repertorio ben innestati nei fotogrammi realistici, il videoclip, con la sua grafica moderna e inaspettata, e il ritratto esistenzialista, consegnato da lunghi carrelli all'indietro e da riprese scomposte. La trama, emozionante e tragica, compensa uno stile visivo poco originale, anche se non si può fare a meno di chiedersi cosa sarebbe cambiato se dietro la macchina da presa ci fosse stato l'Eastwood di Million Dollar Baby o il Fincher di Fight Club.

Il film, come hanno confermato le preferenze dell'Academy Awards premiando la straordinaria coppia Bale-Leo, si regge interamente sull'interpretazione dei suoi non-protagonisti, ai quali non a caso sono affidate le battute più brillanti e ironiche e le sequenze più toccanti. Christian Bale dà prova del suo talento riducendo il corpo e il volto a una scarnificazione sconvolgente e dimostrando, come già era accaduto anni fa nell'indimenticabile interpretazione de L'uomo senza sonno, che il corpo di un bravo attore sa piegarsi al suo ruolo come la più malleabile della materie al servizio di un artista. Al contrario di Mickey Rourke in The Wrestler, lavora per sottrazione: la carne non si maciulla, non prende massa, non è logorata da sangue e lividi, non riempie lo schermo eppure porta le cicatrici visibili del dramma, mostra le rughe di uno disumano apologo della sofferenza in cui la volontà individuale del vinto soccombe alla società statunitense, al punto che emblematicamente per nascondersi occorre lanciarsi tra i bidoni della spazzatura.

Di fronte alla bravura del collega il combustibile di Mark Wahlberg, potenziato da muscoli contratti e nervi tesi, è offuscato e non ha modo di emergere, specie se ad affiancare lui e Bale è Melissa Leo, intensa nella parte della madre gretta, svampita e adeguatamente ossigenata. Nella parte del fratellino debole, col complesso d'inferiorità, sblazato come una pallina da tennis tra la madre impresaria, le sorelle arcigne, la ragazza di provincia e il padre flaccido il suo Micky prova a spiegare le ali, ma come un cucciolo torna indietro a chiedere aiuto. Ad ogni match facciamo il tifo per lui e soffriamo ai colpi subiti perché vorremmo che credesse di più in se stesso. Ma la performance eccellente di Wahlberg non raggiunge il livello impareggiabile di quella di Bale a causa delle geometrie apparentemente disfunzionali dei loro ruoli: significativa da questo punto di vista è la scena in cui Dicky corre lungo il ponte della città per raggiungere Micky in palestra. Il passaggio anticipa incredibilmente che quello di Bale non è il Caino odioso che l'inizio del film voleva farci credere e che la sua determinazione supera di gran lunga la timidezza e l'inadeguatezza dell'altro.

Non siamo dunque di fronte a un semplice film sulla boxe, un ring action con incontri memorabili che rievochino le immagini potenti di Toro scatenato o di Rocky: The Fighter utilizza lo sport come metafora delle relazioni umane, come chiave di lettura dei grovigli dei rapporti che nella quotidianità tendono a sfaldarsi, talvolta tra le stesse mura domestiche, sotto il peso delle parole non dette, dei sentimenti tenuti nel fondo dell'anima, dei complessi che plasmano la psiche e dei fallimenti che rovinano gli esseri umani e le loro proiezioni. In questa suggestiva concezione del ring come terreno polveroso e combattivo su cui si sciolgono gli interrogativi stare all'angolo assume il significato poetico dello stare accanto come rivela la bellissima immagine dell'agognato abbraccio fraterno alla fine del film.