Vincere ancora
Dicky Eklund era l'orgoglio di Powell, la cittadina in cui ancora abita insieme alla numerosa famiglia formata dalla madre matrona Alice, dal suo secondo marito George, dal figlioletto e da una schiera di sette sorelle. Quando non è sotto l'effetto del crack, l'ex pugile, che si vanta di aver mandato al tappeto il campione Sugar Ray Leonard, allena il fratellastro più giovane Micky, che ha poca fortuna agli incontri e si guadagna da vivere asfaltando la strada. Con l'aiuto della ragazza Charlene, del padre e del buon amico O'Keefe, Micky capisce che è il momento di staccarsi dagli invadenti familiari e tentare la sorte con le proprie forze. Ma gli insegnamenti di Dicky si riveleranno per lui preziosi e il match atteso da una vita per il titolo mondiale dei pesi medi sarà un'occasione per mettere alla prova se stesso e il fratello.
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Il confronto fra i due è il nodo centrale di un'opera che sviscera temi cruciali della sottocultura americana aggregandoli gli uni agli altri come anelli pesanti di una catena guasta e discutibile, dalla manipolazione dello spettacolo, con il documentario della HBO che sbatte sul piccolo schermo la vita nuda e cruda di Dicky ai violenti abusi degli agenti di polizia, che rompono la mano a Micky, arrivato nel mezzo di una rissa di cui però non è responsabile. Di fronte allo scorrere impietoso e avvincente delle immagini che immortalano la miseria e i fallimenti dei vari personaggi, tra cui la stessa Charlene (Amy Adams), mancata campionessa dell'atletica, lo sguardo si carica di riflessioni cupe mentre lo stile registico oscilla tra il docufilm, con i materiali di repertorio ben innestati nei fotogrammi realistici, il videoclip, con la sua grafica moderna e inaspettata, e il ritratto esistenzialista, consegnato da lunghi carrelli all'indietro e da riprese scomposte. La trama, emozionante e tragica, compensa uno stile visivo poco originale, anche se non si può fare a meno di chiedersi cosa sarebbe cambiato se dietro la macchina da presa ci fosse stato l'Eastwood di Million Dollar Baby o il Fincher di Fight Club.
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Di fronte alla bravura del collega il combustibile di Mark Wahlberg, potenziato da muscoli contratti e nervi tesi, è offuscato e non ha modo di emergere, specie se ad affiancare lui e Bale è Melissa Leo, intensa nella parte della madre gretta, svampita e adeguatamente ossigenata. Nella parte del fratellino debole, col complesso d'inferiorità, sblazato come una pallina da tennis tra la madre impresaria, le sorelle arcigne, la ragazza di provincia e il padre flaccido il suo Micky prova a spiegare le ali, ma come un cucciolo torna indietro a chiedere aiuto. Ad ogni match facciamo il tifo per lui e soffriamo ai colpi subiti perché vorremmo che credesse di più in se stesso. Ma la performance eccellente di Wahlberg non raggiunge il livello impareggiabile di quella di Bale a causa delle geometrie apparentemente disfunzionali dei loro ruoli: significativa da questo punto di vista è la scena in cui Dicky corre lungo il ponte della città per raggiungere Micky in palestra. Il passaggio anticipa incredibilmente che quello di Bale non è il Caino odioso che l'inizio del film voleva farci credere e che la sua determinazione supera di gran lunga la timidezza e l'inadeguatezza dell'altro.
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