Recensione C'era una volta in Messico (2003)

Tra omaggi a Sergio Leone e alla tradizione del grande western americano, Robert Rodriguez porta per la terza volta sullo schermo il mito del nostalgico e imbattibile cantante pistolero.

Un western alla messicana

C'era una volta il cinema di Sergio Leone. C'era una volta la trilogia del dollaro, l'epopea dell'uomo senza nome, del Western all'italiana. Era il tempo del cinema in widescreen accompagnato dalle indimenticabili note di Ennio Morricone. Era un momento saliente per la storia del grande schermo. Ora è il tempo di registi come Robert Rodriguez, cineasti di mestiere che riescono a sorprendere di tanto in tanto con un nuovo "concept" cinematografico, iperdinamico, adrenalinico, a tratti esilarante, a volte surreale. In questa cornice si inserisce C'era una volta in Messico, terzo capitolo di una trilogia immaginata, ideata e realizzata come esplicito omaggio al nostro Leone (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo) e al cinema classico, avventuroso e post-apocalittico di George Miller (Interceptor, il guerriero della strada). Si consacra così la leggenda di El Mariachi, un chitarrista eroe dalla custodia per il suo strumento piena di armi.

Volevo produrre qualcosa di diverso e divertente, che derivasse anche da un'idea estemporanea ed efficace, ha affermato il filmmaker amico di Quentin Tarantino, con cui ha prodotto e realizzato Dal tramonto all'alba.
Questo il commento al suo film d'esordio (El Mariachi), girato con scarsità di mezzi e risorse (solo 7000 dollari, di cui la metà auto-finanziati) ma destinato a catapultare il regista nella notorietà, con un premio del pubblico al Sundance Film Festival di Robert Redford.
Il successivo Desperado pensato come remake del primo film, venne girato sulla base di un budget più consistente ed ebbe peraltro il merito di lanciare i due protagonisti, Antonio Banderas e Salma Hayek. Il successo di pubblico ne fece un piccolo cult del genere, a tal punto che Amy Pascal della Columbia Pictures chiamò Rodriguez e gli commissionò il sequel, ossia questo Once Upon a Time in Messico.

Quest'ultima pellicola ha un plot narrativo incentrato sulla storia di El Mariachi (Banderas) e della sua amata Carolina (Hayek), rivissuta attraverso un sapiente utilizzo del flashback che ripercorre vicende inedite per il pubblico. In questo senso, al di là della coppia protagonista e del contesto messicano (la città coloniale di San Miguel De Allende), il film non presenta molti punti di contatto con i due capitoli precedenti. Lo stile ironico di alcune sequenze fa da contro-altare al ritmo ultraviolento delle scene di azione. In più il carnet dei personaggi risulta arricchito di figure caricaturali come l'amorale Sands (Johnny Depp), un nevrotico, inverosimile ma in fin dei conti simpatico agente della CIA, capace di nascondere dietro un braccio finto, il suo vero arto con in pugno una pistola pronta a sparare in "ogni evenienza"; il cattivo Barrillo, interpretato da un magistrale Willem Dafoe, e il suo "uomo di fiducia" Billy Chambers (il redivivo Mickey Rourke); il fido Lorenzo, uno dei compagni di El Mariachi, dal volto della star musicale Enrique Iglesias (altro tributo di Rodriguez al cinema, data la vicinanza col giovane musicista Ricky Nelson, apparso nel western di Howard Hawks, Un dollaro d'onore) e la dura e pericolosa Ajedrez dalle "rassicuranti" sembianze di Eva Mendes.

Insomma, con Rodriguez il western sembra quasi aver sposato la commedia nera (il gusto macabro del sorriso), non disdegnando le più recente tradizione "over action" di stampo orientale (in alcune scene El Mariachi si arrampica sulle pareti come una mosca, confondendosi con Neo di Matrix e lo Spider-man di Sam Raimi) e l'ultraviolenza un po' splatter alla Pulp (si veda il tarantiniano Kill Bill: Volume 1).
Per un'ora e quaranta non ci si annoia di certo, anche se a lungo andare, si avverte sempre di più un senso di nostalgia per le emozioni vecchio stampo di un filone cinematografico che non esiste più.