Cinque anni di lavoro, sei continenti e dodici decenni; questi sono solamente alcuni dei numeri che caratterizzano The Story of Film, un documentario monumentale ma non per questo impersonale, realizzato per raccontare il cinema e le sue molte evoluzioni in cui la tecnica si è spesso piegata alle più importanti esigenze del cuore. A progettare quest'avventura artistica, da cui sono assolutamente banditi freddi nozionismi, è Mark Cousins che cerca di portare sullo schermo non solamente il suo libro omonimo ma, soprattutto, tutto l'entusiasmo e la meraviglia provata di fronte all'inesauribile magia prodotta dalla lanterna magica. Così, dopo una lunga peregrinazione terminata in Kurdistan e un manuale realizzato con sentimento, il regista mette alla prova se stesso per racchiudere nella forma di un documentario lungo ben quindici ore una delle storie più incredibili del mondo scritta da protagonisti indimenticabili come Stanley Donen, Vincente Minnelli, Kyoko Kagawa, Orson Welles, Alfred Hitchcock, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Gus van Sant, Terrence Malick e Lars Von Trier. Oggi, dopo la presentazione in prima assoluta al Toronto Film Festival e la messa in onda su More4, The Story of Film si prepara a fare la sua apparizione sugli schermi italiani. Distribuito dalla BIM dal 25 settembre per un periodo di sette settimane, in cui sarà possibile assistere ogni martedì alla visione di due capitoli della durata di 62 minuti l'uno, il documentario non poteva che essere accompagnato dal suo regista che, dando voce ai ricordi di un bambino di Belfast impaurito dalla violenza degli anni Settanta, cerca di sdebitarsi con il cinema per averlo condotto in luoghi lontani dalla realtà.
Della sua opera colpisce, in modo particolare, la semplicità del linguaggio utilizzato. Questo elemento, in particolare, sembra rendere il tutto adatto al pubblico più giovane immerso in film blockbuster ed effetti speciali. Che tipo di lavoro ha svolto per ottenere questa sensazione di semplicità, nonostante una materia complessa come la storia del cinema? Mark Cousins: Innanzi tutto grazie, sono profondamente commosso da questo commento, perché un linguaggio semplice è esattamente quello che volevo ottenere con il mio lavoro. Molte delle persone che scrivono o parlano della storia del cinema tendono ad utilizzare espressioni complicati, come se intorno alla materia mettessero un bel recinto. Per la serie io lo capisco, ma, probabilmente, voi no. Durante la scrittura del libro e la realizzazione del film era come se stessi preparando un sugo. Tu lo prepari, metti gli ingredienti e poi lo fai cuocere e restringere. In questo modo il sapore si arricchisce, aumenta il gusto. Questo è quello che io ho cercato di fare con il linguaggio per renderlo sempre più asciutto, puro. Poi, quando veramente comprendi e padroneggi qualche cosa sei in grado di esprimerla in termini chiari. Quando non la capisci è il momento in cui fai ricorso a dei termini tecnici, complessi. In quindici ore di film non c'è una sola volta in cui io usi le parole autore o messinscena. Questo, però, non significa che sia un lavoro troppo semplicistico. I grandi registi iraniani vogliono che i loro film siano più puri all'esterno ma più ricchi all'interno ed è questo l'obiettivo che miravo a raggiungere.Martin Scorsese ha ricostruito l'evoluzione tecnica e poetica del cinema nei documentari Il mio viaggio in Italia e Un secolo di cinema - Viaggio nel cinema americano di Martin Scorsese. In entrambi i casi il regista offre un punto di vista profondamente personale, interpretando tutto attraverso lo sguardo affascinato di un bambino diventato poi uno degli artisti più rappresentativi del cinema moderno. Qual è stato il suo personale filo conduttore, il punto di vista scelto per costruire The Story of Film e dominare un'opera immensa divisa in quindici capitoli?
Il mio film riguarda la passione e l'amore per il cinema. Però, sebbene sia un opera corposa, non è impersonale come un monumento imponente, massiccio e freddo. In realtà ho cercato di scrivere una lettera d'amore che tenta di coprire tutta la storia e di viaggiare in tutto il mondo. Si tratta di un progetto profondamente personale che ho realizzato girando da solo, il più delle volte con una telecamera piccola che ho portato sempre con me. Cogliere Trastevere all'alba o le strade di Calcutta al crepuscolo è un punto di vista poetico che mi rappresenta profondamente. Allo stesso tempo, però, ho tentato di essere oggettivo nella volontà di non diventare parziale.
Credo che il cinema italiano sia connesso con la sua società più di qualsiasi altro al mondo. Il neorealismo ha, in un certo senso, riabilitato l'immagine del paese alla fine della guerra, facendovi riappropriare della vostra dignità. Allo stesso tempo, è praticamente impossibile scollegare il cinema italiano dalla pittura, il design, la sensualità e il sistema delle star, soprattutto quelle femminili. Tutto va visto al centro di questa vasta gamma di elementi. Parlando dei lavori più recenti, poi, credo che un vero capolavoro sia il film Le quattro volte di Michelangelo Frammartino, anche se la più grande delusione è che non ci sono interpreti femminili dietro la macchina da presa.
Lei racconta con passione il nascere delle innovazioni e come i film spesso riecheggino da un autore all'altro. Partendo da questo punto di vista, quanto è stato difficile parlare del cinema americano di oggi, in cui l'evoluzione sembra essere solo tecnica?
Alcuni dicono che il cinema è morto, ma secondo me stanno guardando solamente dalla parte sbagliata. Perché un certo pubblico va a cercare solamente i grandi blockbuster americani, ma, fortunatamente abbiamo ancora gente come David Lynch e Paul Thomas Anderson. Credo che sia veramente liberatorio non porsi il problema del botteghino, tapparsi gli occhi di fronte a questo e farlo intenzionalmente. Una volta che decidi di non considerare questo aspetto, non ti perseguita più creandoti difficoltà. A quel punto puoi scoprire anche altre realtà. Io guardo moltissimi film americani. Di recente ne ho visti tre che toccano il mondo adolescenziale al femminile. Si tratta di Margareth di Kenneth Lonergan, La fuga di Martha e Hunger Games, un po' più commerciale rispetto agli altri, ma che trovo veramente valido. Quindi, non si può certo dire che il cinema americano sia morto, semplicemente non è più il centro. Per questo motivo nel mio The Story of Film ho deciso di decentrarlo.
A volte il cinema si è trovato profondamente indietro rispetto ai cambiamenti sociali. Prendiamo, ad esempio, gli anni cinquanta. Avevamo la decolonizzazione dell'Africa, l'arrivo degli adolescenti e del femminismo. Il mondo intorno a noi stava cambiando, ma sul grande schermo gli Stati Uniti erano ancora rappresentati da Doris Day. Negli anni sessanta, invece, si è fatto un salto in avanti rispetto al cambiamento sociale, cavalcandolo e guidandolo. Questo è quello che ha portato alla Nouvelle Vague in Francia, ad esempio. A volte, quindi, il cinema è conservatore, altre è radicale. Se uno guarda un continente come l'Africa dove i livelli di alfabetizzazione non sono certo elevati, ci rendiamo conto di come la produzione di film sia un elemento centrale per il cambiamento sociale.
In questi centotrenta anni di storia cinematografica, c'è un decennio cui si sente particolarmente legato?
Adoro gli anni venti. In quell'epoca i film hanno cominciato a parlare delle città componendo una vera e propria sinfonia della paura che si provava nei confronti del grande centro urbano. L'altro decennio che trovo interessante sono gli anni novanta, il periodo in cui gli uomini hanno capito l'aspetto del digitale. Sono cominciate a venir fuori parole come avatar e il concetto di avere una vita online rispetto ad una offline. La realtà perdeva la sua essenza reale.