Non abbiamo ancora potuto vederlo, The Bourne Legacy (in uscita ad agosto negli USA, il 14 settembre qui da noi), ma i 40 minuti che ci sono stati mostrati prikma di realizzare questa intervista sono stati più che sufficienti a incuriosirci. Più che sufficienti a farci riflettere per l'ennesima volta sui modi della serialità nel cinema americano moderno, e su come questi si rinnovino continuamente legandosi a doppio filo a quelli delle serie televisive (tra sequel, prequel, spin-off e singolari ibridi tra queste forme); e più che sufficienti anche a renderci interessante e stimolante la chiacchierata che abbiamo fatto con il regista Tony Gilroy e con i protagonisti Jeremy Renner ed Edward Norton. Questi ci hanno presentato (o sarebbe meglio dire anticipato) questo curioso esempio di sequel che porta nel titolo una presenza che definiremmo fantasmatica: quella di un personaggio che non vediamo nel film, ma che con il suo nome informa di sé la filosofia, il background e gli stessi sviluppi narrativi della pellicola.
Gilroy, lei prima di passare in cabina di regia era sceneggiatore della saga. Ora ha avuto più possibilità di fare ciò che voleva?
Tony Gilroy: Il motivo per cui si diventa registi è proprio avere il controllo: questo è il mio film. Quando si è solo sceneggiatori o solo registi, è particolare (e anche divertente) vedere le differenze tra ciò che c'era scritto sulla pagina e quello che poi è il risultato finale...
Abbiamo visto 40 minuti di film. Sarà questo il tono generale dell'intera pellicola?
Posso dirvi che è un film di Bourne. E' un film che ha la stessa logica di un musical: lì, la musica non si limita ad accompagnare la storia, ma la sospinge, le dà forza. Lo stesso succede con l'azione nel nostro film.
La prima parte della domanda è lontana da me, non è sul mio radar. Io ho pensato solo a fare il mio film, di ciò che c'è a monte non mi interessa. Se Damon tornerà nella saga non saprei dire, ma penso sia possibile. Se Jason Bourne è vivo da qualche parte nel mondo, c'è una possibilità che torni.
Registicamente, temeva il confronto con Paul Greengrass e col suo lavoro, molto personale, sugli ultimi due film della saga?
No, ammiro molto quello che ha fatto lui e semmai per me era una sfida confrontarmi col suo lavoro. Con mio fratello Dan Gilroy abbiamo discusso a lungo sulla strada da prendere per questo film, e alla fine abbiamo deciso di dargli una struttura diversa: una struttura che contemplasse più punti di vista, e che quindi poteva avere anche uno stile visivo diverso.
Com'è stato lavorare con un perfezionista come Edward Norton?
Entusiasmante, anche perché la sua è una figura di "cattivo" diversa, più complessa. Inoltre, poiché la scena iniziale con Jeremy Renner l'abbiamo girata in realtà alla fine, ho potuto immergermi fin dall'inizio delle riprese nel suo mondo, senza distrazioni.
Quando gira un film d'azione, pensa a modelli roboanti come quelli di Michael Bay, o più asciutti come i film di Nicolas Winding Refn?
Io ho scritto e ho diretto personalmente molte scene d'azione. Il problema in questo genere è come ci si approccia al materiale: in questo senso, nella fattispecie c'è stata una grande collaborazione (e un grande aiuto) dal regista della seconda unità, Dan Bradley. Non avevo mai avuto una collaborazione così stretta con qualcuno. Il nostro stile, comunque, doveva essere realistico: il dolore doveva far male, la gravità provocare la caduta dei corpi, ciò che cadeva si doveva rompere.
Non saprei, i libri sinceramente neanche li ho letti. Questa è una storia interamente originale. Il titolo è lo stesso di un libro dedicato a Bourne, ma il film non ha niente a che fare con quest'ultimo: semplicemente, mi sono trovato davanti questo titolo e ho pensato che era perfetto, proprio per raccontare la storia che c'era dietro a ciò che succedeva nei capitoli precedenti.
In passato ha fatto anche il produttore ma poi ha smesso. Perché?
In quei pochi casi, venivo chiamato produttore solo perché avevo messo i soldi, mentre in realtà il lavoro di produttore è qualcosa di più complesso. Spesso la gente non ha un'idea precisa di cosa faccia un produttore.
Renner, lei con questo film si è dedicato ad un altro franchise, dopo Mission: Impossible - Protocollo fantasma e The Avengers. Come ci si sente ad essere l'uomo della serialità, a Hollywood?
Jeremy Renner: Si tratta di grandi caratteri da esplorare: se per farlo servono più film, per quanto mi riguarda è un'ottima cosa. Per me tornare più volte a un personaggio non è una grossa pressione: semmai, la pressione è quella di rendere grande un film.
Che differenze vede tra Aaron Cross e Jason Bourne?
Bourne è stato scoperto dal pubblico, e lui stesso si scopriva man mano. Aaron Cross invece sa chi è, è consapevole del suo ruolo, ed è in questo modo che mi sono rapportato a lui. C'è una netta differenza, agli occhi dei due protagonisti, tra Treadstone e il nuovo programma al centro di questo film.
Qui parliamo di mele, banane e arance: ci sono caratteristiche e circostanze molto diverse. Le tonalità sono diverse, l'unica cosa in comune da parte mia è l'impegno, lo stimolo a fare un buon lavoro.
Negli ultimi anni lei ha interpretato soprattutto film d'azione. Il suo nuovo lavoro con James Gray potrebbe essere l'occasione per cambiare rotta?
Certo, sarà un modo per esplorare altri territori. La costante è il fatto che si può imparare la complessità; ci sono persone da cui si impara ogni giorno. Questo nuovo progetto potrebbe essere uno dei modi per essere visto diversamente.
Cosa può dirci sulla sua interpretazione nel nuovo Hansel & Gretel?
E' un'idea che mi divertiva, mi pareva interessante ampliare la storia: noi uccidiamo le streghe. Non mi dispiacerebbe vivere in quel mondo.
Nel film, Rachel Weisz sarà una compagna d'azione costante?
Sì, è bello avere a fianco un'attrice come lei, è produttiva, ha una grande forza. La mia preoccupazione principale, comunque, durante le scene d'azione, era quella di proteggerla.
Prima lavorava con delle grandi star, ora, da un po' di tempo, si può dire che la star è lei. La sua vita è cambiata, da questo punto di vista?
Io sono sempre la stessa persona, non credo che una maggior fama mi abbia fatto cambiare. Dopo un po' ci si abitua. Penso come un essere umano, esattamente come tutti gli altri.
Teme il ritorno di Matt Damon nella saga?
No, e perché mai? Sono un suo grande fan, mi piacerebbe molto lavorare con lui. Semmai spero che torni: non lo temo, ma proprio l'opposto.
Edward Norton: Sì, mi piacerebbe. Ho appena scritto un film che vorrei dirigere, per ora posso dirvi solo che non è una commedia. E' un'idea che porto avanti da molti anni, spero si possa concretizzare.
Tony Gilroy ha detto che questo è un film con diversi punti di vista. Tra questi c'è anche il suo, quello del "cattivo"...
Lui fa un lavoro straordinario nel ritrarre personaggi che si interrogano su come sono diventati quello che sono. Questo vale per il mio personaggio come per gli altri. E' questo che mi piace del film.
Il suo personaggio, secondo lei, può rispecchiarsi in individui e situazioni reali della politica internazionale?
Sì, credo sia molto basato sulla realtà. Ascoltando i notiziari, almeno una volta al mese vengono fuori notizie simili, ad esempio droni che bombardano territori in giro per il mondo, senza che ci sia una guerra. E' successo di recente nello Yemen. Il nostro paese porta la responsabilità di azioni moralmente molto discutibili.
Come mai il suo personaggio ha i capelli grigi?
Per questo particolare mi sono ispirato al sindaco di Chicago, Ron Emanuel. Prima era il capo gabinetto di Obama, e nel giro di due anni i suoi capelli si sono ingrigiti. E' un uomo molto duro, determinato, ed è stata una fonte di ispirazione per il mio personaggio.
Lei è un artista da sempre molto impegnato nel sociale. Non ha mai pensato a dirigere un documentario?
Ne ho prodotti alcuni, in realtà, uno di questi si chiama By the People: The Election of Barack Obama ed è incentrato appunto sull'elezione del presidente. Ora ne stiamo preparando un altro. Mi piacciono molto i documentari, anche se a dire il vero non mi sono mai trovato ispirato a girarne personalmente.
Beh, non è proprio la prima volta, in realtà: in passato ho fatto Red Dragon, che faceva parte della saga di Hannibal Lecter, e anche L'incredibile Hulk. Sul primo, in particolare, ero scettico, ma poi la sceneggiatura mi conquistò. Questo film, invece, l'ho voluto fare perché sono da sempre un fan di Tony: per me Michael Clayton era un film epocale.
Lei ha lavorato con moltissimi registi. Ce n'è uno con cui vorrebbe tornare a lavorare?
Non uno solo, moltissimi, appunto. Ho fatto due film con John Curran e vorrei tornare a lavorare con lui; ne ho fatti poi con David Fincher, Spike Lee, Wes Anderson, con lo stesso Tony... tornerei a lavorare con tutti loro.
E c'è invece qualche regista con cui ha avuto rapporti negativi?
No, non ho mai avuto rapporti realmente negativi. Alcuni film, semmai, sono stati più difficili da fare, più complessi, ma bisogna ricordare che alla fine si tratta di lavoro. A volte i media ingigantiscono le cose, creano problemi che in realtà non sono mai esistiti.
Il suo non è solo un cattivo, ma un personaggio molto più complesso. Come farà a farlo amare al pubblico?
E' una persona intellettualmente forte: è così che Tony lo ha delineato. Un personaggio che ha la possibilità di giustificare quello che fa in un'ottica intellettuale. Ha un carattere complesso, ma è molto sincero.