Dall'ottobre del 2014 fino a pochi mesi fa si era dato per scontato che la Fase Tre del Marvel Cinematic Universe si aprisse e si chiudesse con due eventi epocali: Captain America: Civil War, capitolo finale della trilogia dedicata a Steve Rogers, e Avengers: Endgame, episodio finale delle avventure della formazione originale del team e, fin dal titolo, la conclusione per un'era specifica del franchise. E poi, a sorpresa, il produttore Kevin Feige ha dichiarato che la vera chiusura della Fase 3, e con essa di tutta una prima lunga parte del MCU, sarebbe stata Spider-Man: Far From Home, un film più "piccolo" rispetto alle atmosfere epiche dell'avventura spazio-temporale degli Avengers. Da un lato è coerente con la strategia adoperata per la Fase Due, che dopo i piani apocalittici di Ultron si concesse un finale più modesto con l'introduzione di Scott Lang/Ant-Man; dall'altro, è una decisione molto importante sul piano simbolico, che unisce in un unico film, in modo più sottile ma non per questo meno potente rispetto all'evento cosmico di pochi mesi, il passato, il presente e il futuro del MCU. Attenzione, l'articolo contiene spoiler !
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Questioni di eredità
Al centro di tutto, come già nel precedente Spider-Man: Homecoming, c'è un elemento non sempre apprezzato dai fan: il rapporto di amicizia tra Peter Parker e Tony Stark. Due anni fa assistemmo alla prima parte del percorso di maturazione di Peter, che imparò a prendere sul serio il concetto di "grande potere e grandi responsabilità" grazie ai consigli di Stark, incarnazione dell'irresponsabilità allo stato puro. "Voglio che tu sia migliore di me", gli disse il mentore durante una delle loro tante discussioni, ed è una frase che riecheggia nella nostra memoria nella parte finale di Spider-Man: Far From Home, quando il giovane eroe si crea un nuovo costume usando la tecnologia di Stark, adottando le idee del defunto magnate ma con le apposite modifiche per rendere il risultato finale quello giusto per Spider-Man, senza elementi che lo rendano una "brutta copia" di Iron Man (tra le altre cose, il nuovo costume non ha più la modalità instant kill). Il messaggio è chiaro, se si considera Peter l'avatar del MCU in generale: l'influenza di Stark, eroe principale del franchise per oltre dieci anni, si farà sempre sentire (infatti la sequenza è accompagnata dallo stesso brano che aprì Iron Man nel 2008), ma i suoi eredi cinematografici troveranno il modo di avere un'identità tutta loro.
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Altamente simbolica anche la scelta del nuovo mentore di Peter, che gli fa capire ancora di più l'importanza della responsabilità nel contesto dell'attività supereroistica: Happy Hogan, l'ex-autista e bodyguard di Stark. Lo interpreta, come sempre, Jon Favreau, l'uomo che puntò su Iron Man, e in particolare su Robert Downey Jr., per inaugurare il Marvel Cinematic Universe undici anni fa. Più che il miliardario con l'armatura ipertecnologica, è lui il vero cuore del franchise, ed è logico che sia lui a guidare Peter, e di conseguenza l'intero MCU, nella transizione dalla Infinity Saga (così sono state definite le prime tre fasi) a qualcosa di nuovo, ma comunque riconoscibile. Siamo alla fine della Fase Tre, ma tramite la presenza di Favreau siamo veramente al capolinea di tutto un lungo ciclo, iniziato tanti anni fa quando la Casa delle Idee decise di mettersi in proprio e portare sullo schermo gli eroi che nessun altro studio voleva toccare. Gli stessi eroi che ora non ci sono più, in un modo o nell'altro: "Sei da solo", dice Happy a Peter. "Cosa farai?" La domanda è indirettamente rivolta a Kevin Feige e a tutti i registi che avranno a che fare con il franchise nei mesi e anni a venire, e la risposta dovrebbe essere quella che dà Peter tramite il costume: imparare dal passato per costruire un futuro migliore. O quasi.
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Eroe o cattivo?
Il secondo episodio delle avventure in solitario di Spider-Man chiude il cerchio in due modi, per quanto riguarda l'antagonista di turno e le sue motivazioni: Quentin Beck/Mysterio lavorava per Tony Stark ed è l'inventore della tecnologia olografica vista in Captain America: Civil War, capitolo inaugurale della Fase Tre e debutto della versione MCU di Peter Parker; e tra i suoi sgherri c'è William Ginter Riva, che nel 2008 aiutò Obadiah Stane nel suo tentativo di spodestare Stark. Le sofferenze terrene di Tony sono finite da un po', ma la sua storia aveva ancora alcune righe molto importanti da tramandare, ricollegandosi a come tutto era iniziato. E lì si cela la riflessione più subdola e a tratti crudele del film, che si rifà a un sottotesto fondamentale che i fan appoggiano da anni: a modo suo, Tony Stark è sempre stato il più grande villain del franchise, in particolare quando, creando Ultron e poi approvando gli Accordi di Sokovia, ha sostanzialmente posto le basi per la vittoria di Thanos in Avengers: Infinity War.
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La cosa è particolarmente evidente grazie all'oggetto che Tony ha lasciato a Peter: un paio di occhiali ipertecnologici con annessa intelligenza artificiale, nota come E.D.I.T.H. (Even Dead I'm The Hero, anche da morto sono un eroe). Il che ci porta al finale di Spider-Man: Far From Home, o meglio, al mid-credits, dove tutto sembra tornato come prima, per poi trasformarsi in qualcosa di più drammatico grazie a un "regalo" postumo di Beck: un video manipolato per far sì che Spider-Man risulti il vero colpevole di quanto accaduto nel corso del lungometraggio, con tanto di smascheramento del nostro eroe. Un colpo di scena che catapulta Peter in una situazione simile a quella del suo mentore, solo che Tony rivelò la propria identità al mondo di sua sponte, mentre Parker è stato smascherato con l'inganno e deve ora fare i conti con un'opinione pubblica divisa. L'ultima volontà di Stark è stata stravolta da Beck, applicando il suo messaggio con estreme conseguenze, dal sapore nolaniano: Mysterio è morto da eroe, mentre Spider-Man vive abbastanza a lungo da diventare il cattivo. Le due facce di quella medaglia complessa che è stata Tony Stark, la cui influenza talvolta nefasta non ha ancora finito di farsi sentire.