Esattamente mezzo secolo fa, nel 1967, fra le pellicole più popolari e premiate dell'anno figuravano Indovina chi viene a cena? e La calda notte dell'ispettore Tibbs, due film di genere diversissimo ma imperniati entrambi sul razzismo, nervo scoperto della società americana degli anni Sessanta, e interpretati entrambi dal divo afroamericano Sidney Poitier. Nel thriller di Norman Jewison, vincitore di cinque Oscar tra cui quello come miglior film, Poitier interpretava il personaggio del titolo, che condivide un'indagine per omicidio con il capo della polizia locale Rod Steiger nella cornice della retrograda provincia del Mississippi.
Ma nell'immaginario collettivo un impatto perfino maggiore lo ebbe il dramma su un rapporto interraziale diretto da Stanley Kramer, fra i registi più esplicitamente liberal dell'epoca (suo anche La parete di fango, sempre con Poitier), in cui l'attore di colore impersonava il futuro genero della matura coppia composta da Spencer Tracy e Katharine Hepburn. E mentre La calda notte dell'ispettore Tibbs prendeva il problema di petto denunciando lo sfacciato razzismo dell'America del profondo Sud, quella più refrattaria alle riforme dell'età kennediana, Indovina chi viene a cena? operava in maniera più sottile ma forse più incisiva: perché in quel caso a venire a galla erano i tabù, i pregiudizi o il banale 'disagio' della borghesia colta e progressista di San Francisco, vale a dire un modello di riferimento molto più vicino alla maggioranza degli spettatori (e in questo senso un ruolo importante lo giocava pure l'affetto del pubblico nei confronti di due veterani quali Tracy e la Hepburn).
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Indovina chi viene a cena, edizione 2017
A cinquant'anni di distanza da quel 1967, annata spartiacque per l'evoluzione del cinema hollywoodiano, scorrendo la classifica del box office statunitense, a oggi il maggior successo dell'anno tra i film che non siano sequel o remake è un horror della 'solita' Blumhouse Productions, realizzato con un budget di appena quattro milioni e mezzo di dollari e in grado di incassarne oltre centosettanta milioni soltanto sul mercato nazionale, dove ha raccolto venti milioni di spettatori in virtù di un passaparola formidabile. Approdato nelle sale italiane giovedì scorso, Scappa - Get Out è l'opera d'esordio del regista e sceneggiatore newyorkese Jordan Peele, classe 1979, noto in patria più che altro in qualità di comico televisivo, e il suo spunto di partenza, ironicamente, è assai simile a quello alla base di Indovina chi viene a cena?: un ragazzo afroamericano, il fotografo Chris Washington (Daniel Kaluuya), si accinge con un certo nervosismo a incontrare per la prima volta i genitori della sua fidanzata bianca, Rose Armitage (Allison Williams), nella loro residenza di campagna.
Ma se nel classico di Stanley Kramer la tensione era costruita interamente su frizioni generazionali e caratteriali, esasperate dalla coscienza di appartenere a una nazione apertamente razzista (durante le riprese del film, i matrimoni misti erano ancora proibiti per legge in ben diciassette Stati degli USA), in Get Out Peele non tarda ad instillare elementi di suspense via via sempre più evidenti: il bizzarro comportamento dei domestici (neri) della famiglia di Rose, l'ipnosi praticata per professione da sua madre Missy (Catherine Keener) e un fratello, Jeremy (Caleb Landry Jones), dall'esuberanza quantomeno inopportuna. E la prima metà della pellicola, con l'atmosfera di cortesia forzata che regna in casa Armitage e un lento ma graduale accumulo di strani dettagli, risulta non a caso la più riuscita di Get Out: quella in cui, sposando completamente la focalizzazione di Chris, ci ritroviamo a condividere dubbi e (forse) paranoie del giovanotto, con almeno una sequenza da pelle d'oca (la corsa notturna del giardiniere Walter). Premesse intriganti, mantenute in buona parte - ma non del tutto - dal momento in cui la natura horror del prodotto si fa manifesta e, per certi versi, più scontata.
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Horror so white: il razzismo come motore della suspense
Ma a prescindere dai giudizi estetici, è innegabile il fatto che Get Out abbia intercettato l'interesse trasversale di diverse tipologie di pubblico, mantenendo fede alla propria essenza di opera di genere senza rinunciare a portare avanti l'analisi della "questione razziale" alla radice del racconto; anzi, innestandola in tutto e per tutto nel suo intreccio da thriller, e in modo tutt'altro che banale (attenzione, da qui in poi seguiranno piccoli spoiler sulla trama del film). La discriminante della "razza", infatti, si rivelerà centrale sia in merito al crescente imbarazzo di Chris al cospetto di familiari e conoscenti di Rose, sia in relazione al colpo di scena che, nel terzo atto di Get Out, lo trasformerà nella vittima in balia di un'autentica congrega di carnefici, con risvolti fra la black comedy, l'horror tout court e il meta-film che si diverte a rimarcare con ironia gli stilemi del genere. E se la condizione di minaccia sperimentata da Chris viene percepita con un'intensità tanto concreta e palpabile, probabilmente è proprio perché l'identità etnica del protagonista è il motivo stesso di tale minaccia e del suo senso di spaesamento in un microcosmo ostile.
In quest'ottica, la simbologia del cervo investito e ucciso da Rose e Chris lungo la strada (un avvenimento che turba in profondità il ragazzo) appare manifesta, in retrospettiva, tramite le parole pronunciate poco dopo dal padre di Rose, Dean (Bradley Whitford): "Sai che ti dico? Fuori uno, ne restano altri centomila da eliminare. Non voglio fare la voce grossa, ma ti confesso che non mi piacciono i cervi, mi disgustano... stanno prendendo il sopravvento, sono come ratti, stanno distruggendo l'ecosistema. Se vedo un cervo morto sul bordo della strada penso: 'È un inizio!'". Basta sostituire la parola "cervo" con "nero" per far assumere un nuovo, terribile significato alla bislacca invettiva del signor Armitage; così come basterebbe, mutatis mutandis, inserire di volta in volta nella frase il nome della minoranza di turno (dagli ebrei agli zingari, dagli immigrati agli omosessuali) per sentir riecheggiare altri, atroci sfoghi razzisti di ieri e di oggi, razzismi su cui gli americani non hanno certo l'esclusiva.
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La questione razziale fra passato e presente
C'è però una considerazione ulteriore, a proposito della rappresentazione del razzismo in Get Out, che è forse la più rilevante da un punto di vista sociologico: la sua capacità di mettere in scena atteggiamenti e dinamiche spaventosamente attuali, soprattutto in quel tessuto medio-borghese che costituisce il principale bacino di utenza del film di Jordan Peele. Detto in altri termini, e forse con enfasi iperbolica (ma nemmeno troppo): Get Out è il più scottante e il più attuale film sul razzismo uscito negli ultimi tempi. Mettiamo a confronto l'horror di Peele con un altro pregevole benché sopravvalutato campione d'incassi degli scorsi mesi, arrivato addirittura (e con generosità eccessiva) alla ribalta degli Oscar: Il diritto di contare di Theodore Melfi. Nel biopic sulla matematica afroamericana coinvolta negli studi della NASA durante la "corsa allo spazio", la distanza dello spettatore medio dal razzismo subito dalla protagonista non potrebbe essere più ampia: una distanza storica, per cominciare (il film si svolge al principio degli anni Sessanta), ma anche culturale e psicologica. Per fare un esempio: nessun essere umano decente, oggi, potrebbe concepire toilette separate per bianchi e neri o voler impedire l'accesso ai servizi in base al colore della pelle.
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Film contraddistinti da un esplicito impegno civile/didattico, come Il diritto di contare, The Help, 12 anni schiavo, Selma - La strada per la libertà e Loving, tanto più alla luce di una contestualizzazione storica ben precisa, svolgono la loro funzione catartica anche attraverso la netta separazione del pubblico odierno dalle violenze e dagli archetipi razzisti in essi descritti: una catarsi esaltata appunto dalla nostra "coscienza pulita" in merito agli eventi narrati. Get Out, al contrario, parla di razzismo con toni più sommessi, ma ben più prossimi allo "spirito del tempo" e alla nostra esperienza quotidiana; e pertanto, a livello quasi inconscio, finisce per rivelarsi ancora più disturbante. Nel film di Peele, del resto, non ci sono appigli consolatori legati a un'armoniosa integrazione fra bianchi e neri, né il paradigma del riscatto edificante dell'outsider di colore... o meglio: il 'riscatto' avverrà, nel finale, ma in termini talmente brutali e sanguinari (al limite della parodia) da non avere pressoché nulla di realmente edificante.
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Get out, under the Moonlight: la battaglia culturale del nuovo cinema black
Il peculiare registro di Get Out, caratterizzato da una singolare fusione fra il thriller e la commedia grottesca (quelle pennellate di humor che però non prendono mai il sopravvento), deriva in fondo da qui, da quello che nell'idioma inglese sarebbe definito come "l'elefante nella stanza", l'ovvia questione di fronte alla quale tutti i personaggi (Chris compreso) simulano una disinvoltura esasperata: il suo essere un nero in un ambiente di bianchi, fin troppo ansiosi di dimostrare la propria ampiezza di vedute. "Se avessi potuto, avrei votato per Obama per un terzo mandato", esclama fieramente Dean Armitage. Perché lui, padre di famiglia bonario e in apparenza di mentalità aperta, è l'emblema del bersaglio primario di Get Out: l'upper class e la middle class che si proclamano democratiche e prive di pregiudizi, e in cui molti di noi potrebbero riconoscersi, ma che alla prova dei fatti non riescono a gestire il contatto diretto con l'alterità se non delimitandola entro gli stereotipi della cosiddetta "negritudine". "Con la tua ossatura e il tuo corredo genetico, potresti essere una bestia", commenta Jeremy con malcelata ostilità, mentre fra gli invitati al ricevimento degli Armitage gli approcci verso Chris scivolano in tragicomiche gaffe, dai riferimenti a Tiger Woods alle allusioni alla potenza sessuale dei neri.
La presunta accettazione delle minoranze, sembra suggerirci Peele, passa inesorabilmente per vetusti luoghi comuni, mentre all'ammirazione di facciata per la comunità afroamericana ("Il nero va molto di moda", altro complimento infelice) corrisponde perlopiù un'assenza di reale interesse. E perfino la "chiave del mistero" potrebbe alludere, con una soluzione fantascientifica dalla forte valenza metaforica, a un procedimento in atto già da tempo nella società occidentale, e in primis nel cinema: la 'normalizzazione' dell'immaginario black e del retaggio culturale afroamericano. E se quella normalizzazione era forse in minima parte necessaria ai tempi di Indovina chi viene a cena?, quando il razzismo era ancora un solido muro da fare a pezzi e non una malattia subdola e spesso invisibile (ma non per questo innocua), la contemporaneità ci presenta invece numerosi tentativi di resistenza contro l'uniformazione alla cultura dominante. Tentativi che oggi, a Hollywood e dintorni, si materializzano in film come Moonlight, in cui la subalternità dell'esperienza di vita nei quartieri-ghetto viene riscattata mediante la ridefinizione identitaria del protagonista Chiron, e Get Out, in cui uno scontro essenzialmente culturale si consuma nel teatro di un sanguinolento spettacolo horror.