Estate. Autunno, Inverno. La primavera, in questo film, non c'è. Il 14 maggio del 2000 Darren Aronofsky presentava al Festival di Cannes, fuori concorso, Requiem For a Dream, il suo secondo film, quello che lo avrebbe fatto conoscere definitivamente al mondo. Requiem For A Dream ha già 20 anni, e non li dimostra: ancora oggi è un film ansiogeno, doloroso, scioccante. E ci sembra ancora all'avanguardia per quanto riguarda il linguaggio. Requiem For A Dream è tratto dal romanzo omonimo di Hubert Selby del 1978. È una storia di dipendenze di vario tipo, ambientata ai margini di una New York disperata e degradata. È una discesa agli inferi parallela e collettiva, nel girone degli ossessivi. Perché chi è ossessionato è schiavo, e si può essere schiavi di qualsiasi cosa: della droga, della televisione, delle diete. E anche dei propri sogni. Requiem For A Dream è doloroso perché, come dice il titolo, inizia da un sogno, neanche troppo grande, in fondo semplice, di alcune persone, e finisce con la sua sconfitta, e con il suo contrario. Inizia in un'estate colma di speranze e, attraverso l'autunno, arriva in un inverno che raggela ogni sogno. La primavera? Non è prevista. Non c'è la speranza, la seconda possibilità che contraddistingue il Sogno Americano, che nel cinema di Aronofsky finisce costantemente al tappeto, e rivela tutta la sua ipocrisia. Aronofsky ha messo in scena questa storia con una forma visiva stordente e ipnotica, con un lavoro di montaggio che non lascia respiro, che sottolinea la semplicità e la velocità di ogni gesto, la sua ripetizione, continua e inevitabile. È questo che ci rende schiavi. È questa la dipendenza.
Estate, autunno, inverno: le storie di Harry, Marion, Tyrone e Sara
Requiem for a Dream è una tragedia in tre atti: estate, autunno, inverno. Attraverso queste tre stagioni seguiamo la caduta ("fall" significa autunno, ma anche cadere) di quattro personaggi. Sara Goldfarb (Ellen Burstyn) è una casalinga, una vedova che passa le giornate guardando un gioco a premi in tv, sognando di parteciparvi. Il figlio Harry (Jared Leto) è un tossicodipendente. La sua ragazza, Marion (Jennifer Connelly), divide con lui la dipendenza, ma anche il sogno di aprire un suo negozio di abbigliamento. E anche Tyrone (Marlon Wayans), amico di Harry, vede nella droga un possibile business, l'occasione per svoltare. In quell'estate luminosa i sogni sembrano avverarsi: Sara riceve una telefonata in cui viene invitata allo show. Harry, Marion e Tyrone vedono i loro "affari" decollare. Ma le cose precipitano presto: Sara, per potersi mettere il vestito rosso che ama tanto quando andrà in tv, inizia una dieta a base di anfetamine che le fanno perdere sempre più il contatto con la realtà. Mentre l'eroina viene tolta dal mercato dai fornitori, e ai ragazzi crollano gli affari e inizia l'astinenza. E le cose non possono che peggiorare.
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Aronofsky il maratoneta: il cinema come sforzo
Darren Aronofsky, da ragazzo, faceva il maratoneta. E il suo cinema è sempre stato questo. Ogni suo film è una sfida a livello fisico, è uno sforzo estremo, è una prova atletica da superare. Requiem For A Dream non fa eccezione: Aronofsky prende corpi bellissimi e li sfianca, li devasta, li spinge al limite. La maratona è un'impresa massacrante, durissima. Ed è anche l'ossessione per un obiettivo da raggiungere, quel traguardo a cui arrivare ad ogni costo. E Harry, Marion, Tyrone e Sara hanno in mente il loro traguardo, e non si fermano davanti a niente per raggiungerlo. In fondo, Fidippide, il primo maratoneta della storia, perse la vita per raggiungere il proprio obiettivo.
Hip-hop montage: le immagini come sample
L'idea di cinema di Aronofsky in Requiem For A Dream prende forma attraverso una scelta di regia e di montaggio che rende tutto questo - ossessione, ripetizione, dipendenza - concreto, visibile, immersivo. Aronofsky ci porta dentro la storia facendoci percepire l'ansia, l'affanno, il moto perpetuo dei protagonisti. Sceglie di montare nel suo film una serie di scene molto brevi: se in un normale film di 100 minuti di solito ci sono 600, 700 scene, nel film di Aronofsky ce ne sono più di 2000. In questo modo, montando l'azione in modo frenetico, con continui stacchi, ci toglie il respiro, accelera i battiti del nostro cuore. Ci fa entrare nella storia anche se non vogliamo: non agisce solo sulla nostra mente con quello che racconta, ma anche sul nostro corpo, segnando il ritmo della nostra visione. È la tecnica del fast-cutting, o l'hip-hop montage. È stato proprio Aronofsky a definire il suo montaggio "hip-hop", perché usa le immagini, montandole velocemente e accompagnandole con dei suoni, come la musica hip-hop usa i sample sonori, ripetendoli lungo un brano, con una cadenza che dà il ritmo e la struttura al pezzo.
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La reiterazione del gesto
Scalda l'eroina; aspirala con la siringa; iniettala; sentila entrare in circolo; la pupilla si dilata. Apri la busta; fai scendere il mucchietto di cocaina; aspirala con una banconota arrotolata, sentila entrare in circolo; la pupilla si dilata. Requiem For A Dream vive di questo, di brevi sequenze che intervallano il respiro delle scene più lunghe. A ogni scena un rumore, uno scatto che ti fa sobbalzare leggermente. Il montaggio di Requiem For A Dream ci racconta i gesti ripetitivi, veloci, automatici, come se fossero messi in atto da automi. Gesti che ormai posseggono chi li compie, e li rendono schiavi. Aronofsky racconta in questo modo la dipendenza da droga, ma anche le altre: un gesto per prendere il telecomando, un altro per accendere la tivù. Tac, tac. Le lancette guardate ossessivamente, durante la dieta, per contare il tempo tra un pasto e l'altro. Tac, tac. Le pillole - viola, blu e arancio - che scandiscono la giornata. Tac, tac, tac. Gli scatti del metallo della bilancia pesapersone. Tac. Ogni gesto è secco, ogni gesto ha il suo suono, ogni gesto fa rumore. I gesti, gli scatti, i tagli di montaggio appaiono prima di tanto in tanto nella narrazione, poi si fanno sempre più frequenti, le intere scene si fanno sempre più brevi fino al sottofinale - che segue in montaggio alternato tra le storie dei 4 protagonisti - dal ritmo parossistico, accentuato dalla colonna sonora di Clint Mansell, ossessiva, meccanica, disturbante. Il sottofinale ha su chi guarda un effetto quasi stroboscopico. Fino alla quiete dopo la tempesta. Che non è liberazione, ma solo resa.
Così lontano, così vicino
Ma il montaggio ossessivo è solo uno dei trucchi scelti da Darren Aronofsky per farci vivere al ritmo dei protagonisti. Spesso usa la tecnica del time-lapse per velocizzare le immagini, per farci vivere la vita frenetica e sovraeccitata, dopata, dei personaggi. Oppure usa delle macchine da presa legate al corpo degli attori (le cosiddette SnorriCam) in modo che, spostandosi, sembrino fluttuare nello spazio, quasi a voler volare via da certe situazioni. L'inquadratura rimane fissa mentre i personaggi si muovono, la camera è incollata al volto, lo scruta, coglie il vuoto negli occhi, enfatizza ogni goccia di sudore, ci fa vedere la fatica. Aronofsky fa un largo uso di split screen, dividendo in due la scena, a volte in modo più classico (seguendo parallelamente Sara e Harry, madre e figlio) a volte in modo originale, con Harry e Marion a letto, lo sguardo dell'uno verso l'altra, ma con lo schermo diviso in due: in questo modo sono in due inquadrature diverse ma è come se fossero nella stessa. Quello di Requiem For A Dream è un cinema di estremi: inquadrature estremamente vicine, primissimi piani, alternati a campi lunghi, tagli di montaggio improvvisi tra la realtà e le fantasie dei personaggi.
In posizione fetale
Ma è ogni sequenza, in Requiem For A Dream, a colpire, anche a livello simbolico. Mentre ci avviciniamo al finale, ci rimane impressa la foto che sta fissando Marion, ormai da sola e in astinenza, che ritrae lei e Harry in un momento felice. Basta un attimo per girarla, e trovare dietro il numero dello spacciatore a cui si rivolgerà, e che la costringerà a fare cose che non vorrebbe fare mai. È il rovescio della medaglia, il passaggio brusco dall'estate all'inverno, dalla felicità alla disperazione. Ci colpisce quell'ultima telefonata tra lei e Harry, con la luce sopra il ragazzo che traballa, che viene e va, e sembra dirci che nella sua vita ci sarà sempre più buio. E poi quel finale, quella ricerca di resa, di riposo dopo il diluvio, quel chiudersi di tutti in posizione fetale. Quasi a voler tornare nel grembo materno, unico luogo, ormai impossibile, di protezione.