Recensione The Impossible (2012)

Dopo l'horror ammantato di melò di The Orphanage, Juan Antonio Bayona propone un melò che si nutre dell'horror della natura: il devastante tsunami del 2004, e l'odissea di una famiglia che fu da esso colpita.

Disastro e rinascita

2004, il giorno di Santo Stefano: Maria, Henry e i loro tre figli Lucas, Simon e Thomas hanno appena trascorso il Natale sulle coste della Thailandia. La famiglia, di origini inglesi ma da tempo stabilitasi in Giappone, si è presa qualche giorno di vacanza per le festività natalizie, in quello che per i turisti è un vero e proprio paradiso tropicale. Ma i cinque non hanno fatto i conti con l'imprevedibile furia della natura: proprio il 26 dicembre, infatti, mentre la famiglia si rilassa nella piscina del villaggio turistico, sulle coste thailandesi si abbatte il più devastante tsunami che la storia del paese ricordi; una sequenza di onde distruttive che radono al suolo i villaggi costieri e si lasciano dietro una spaventosa scia di detriti, distruzioni e lutti. Maria, inghiottita e trascinata alla deriva dalle onde, riesce miracolosamente a riunirsi al figlio maggiore Lucas, anch'egli trasportato lontano dal villaggio: la donna è gravemente ferita, il resto della famiglia è disperso, ma i due sceglieranno lo stesso di lottare per mettersi in salvo, incrociando le loro strade con altri sopravvissuti alla tragedia e sperimentando anche la solidarietà.


Dopo essersi cimentato con l'horror ammantato di melò in The Orphanage, Juan Antonio Bayona affonda ancor più le mani nella materia del melodramma, ridotto ulteriormente all'essenziale. Un melò reso possibile, in questo caso, da una sorta di horror della natura, spaventosamente reale e più devastante di qualsiasi incubo di celluloide. L'ispirazione, infatti, è il vero tsunami che colpì le coste della Thailandia nel 2004: la stessa odissea della famiglia protagonista è ispirata alle vicende reali di una famiglia di turisti, in realtà spagnoli. Basterebbe l'impressionante sequenza iniziale di The Impossible, quei primi venti, straordinari minuti in cui la furia degli elementi è rappresentata in tutta la sua potenza, a rendere il film di Bayona una pellicola che merita la visione. Nella rappresentazione del disastro, infatti (che già avevamo visto portato sullo schermo da Clint Eastwood nel suo Hereafter: diversi intenti, ma stesso umanesimo di fondo) il regista spagnolo dimostra una perizia tecnica fuori dall'ordinario; trasmettendo con le immagini tutta l'impotenza dell'uomo di fronte alla rabbia distruttiva di un evento naturale, facendo sentire lo spettatore fisicamente coinvolto nell'evento, restituendo senza mediazioni l'impotente terrore, ma anche il basilare istinto di sopravvivenza, che un simile avvenimento comporta.

E' l'essenzialità, la cifra caratterizzante del film del cineasta spagnolo. Può apparire paradossale, una considerazione di questo genere, per una pellicola che da una parte si regge su elaborate soluzioni di regia (alla sequenza appena citata si aggiungono frammenti di incubi, momenti onirici, ricercati stacchi di montaggio) e dall'altra presenta un impianto narrativo fortemente improntato al melodramma. Ma, in fondo, cos'è il melò se non la rappresentazione immediata, priva appunto di sovrastrutture (nonché spudorata nella sua messa in scena) delle più basilari emozioni umane? Quella che Bayona, qui, mette in scena, è semplicemente la lotta di una famiglia (nucleo essenziale di società) contro la natura: la sua abilità cinematografica, la sua capacità lirica di trasmettere emozioni per immagini, sono subordinate a questa semplice istanza narrativa. Gli affetti essenziali messi in pericolo da una minaccia esterna, quella più imprevedibile e imponderabile: l'uomo contro la natura, un archetipo vecchio quanto la stessa pratica del racconto. E il conseguente istinto di sopravvivenza, ma anche la spinta alla solidarietà e al sostegno reciproco, che l'essere umano oppone alla minaccia: solidarietà familiare ma anche di specie, con l'aiuto prestato da Maria e Lucas prima a un bambino disperso, poi alle persone in cerca dei loro familiari, riunitesi con loro nel sovraffollato centro di soccorso.
The Impossible raggiunge un equilibrio notevole, segno di controllo del mezzo, ma anche di grande sensibilità cinematografica, tra le esigenze di un racconto che vuole (deve) emozionare, e la necessità di narrarlo con rigore, senza cercare scorciatoie emotive che ne snaturerebbero il senso. Lo script di Sergio G. Sánchez, nella struttura speculare delle sue due metà (da una parte la ricerca di Maria e Lucas, dall'altra quella degli altri tre membri della famiglia) ottempera bene a quest'esigenza; ma è soprattutto la regia di Bayona a trasmettere emozioni che vengono vissute sempre come autentiche, riuscendo a fermarsi, regolarmente, un passo prima di scivolare nella retorica e nell'inevitabile artificiosità. Il regista si prende anche i suoi rischi, con una colonna sonora che certo non allontana l'enfasi e la sottolineatura delle emozioni, ma controbilancia questo elemento con un'intelligente direzione degli attori: agli ottimi Naomi Watts e Ewan McGregor (straordinaria in particolare la prima, in grado di restituire tutta l'indomita tenacia del suo personaggio) si sommano le prove degli attori più giovani, a cominciare dal bravissimo esordiente Tom Holland: i primi piani sul suo volto testimoniano l'attenzione del regista per il punto di vista dell'infanzia (e qui viene in mente di nuovo The Orphanage) ma anche il felice incontro tra esigenze narrative e potenzialità attoriali colte in potenza e prontamente utilizzate.

Movieplayer.it

4.0/5