Il cinema britannico, almeno per quanto riguarda l'ultimo quarto di secolo, si è dimostrato tutt'altro che clemente nei confronti di Margaret Thatcher. A dispetto di un biopic nobilitato dalla performance da Oscar di Meryl Streep, l'eredità della Lady di Ferro sembra aver impresso un marchio tutt'oggi doloroso nel tessuto di un paese per il quale gli anni Ottanta hanno rappresentato innanzitutto un decennio di aspre lotte sociali.
Da allora, tanto la letteratura quanto il cinema, tra le varie forme d'arte, si sono assunti il non facile compito di rivisitare l'epoca del cosiddetto thatcherismo, contribuendo ad esprimere un giudizio durissimo sull'attività politica e sul clima di repressione e di "pugno di ferro" (per l'appunto) generato dalla donna che per ben undici anni, dal 1979 al 1990, occupò la carica di Primo Ministro del Regno Unito.
Grazie, signora Thatcher
Al suddetto filone di pellicole che, con toni talvolta drammatici, talaltra ironici (e più spesso con un'abile mistura fra entrambi i registri), hanno rievocato quel decennio fatidico si può ricondurre anche Pride, autentico film sorpresa della 67a edizione del Festival di Cannes, dove è stato presentato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, aggiudicandosi la Queer Palm in qualità di miglior film a tematica omosessuale. Sceneggiato da Stephen Beresford, il quale ha affidato il suo copione alla regia di diligente efficacia di Matthew Warchus, fra i più stimati director del teatro britannico (e appena al suo secondo film dopo Inganni pericolosi, thriller del lontano 1999), Pride difatti è una pellicola che si rifà a due precisi modelli di riferimento: da un lato le fortunate commedie British su outsider impegnati a superare condizioni di disagio sociale e/o familiare (Full Monty, Billy Elliot); dall'altro opere dal taglio esplicitamente 'politico', ambientate in un passato più o meno recente ma con un valore quanto mai attuale (Grazie, signora Thatcher e We Want Sex). Non a caso la pellicola di Warchus si svolge nel 1984, nel pieno dello sciopero nazionale dei minatori, i quali per un anno esatto si batterono contro il Governo della Lady di Ferro e la sua decisione di chiudere la miniera di carbone di Cortonwood, facendo perdere il lavoro a ventimila persone. Nel corso di questa difficoltosa lotta, i minatori avrebbero trovato il loro alleato più prezioso nel Lesbians and Gays Support the Miners: un gruppo di attivisti omosessuali, con quartier generale a Londra, che si adoperarono per raccogliere fondi a sostegno della loro causa.
Orgoglio e pregiudizi
E il cuore narrativo della trama di Pride è costituito appunto dalle varie fasi che contrassegnarono quest'alleanza improbabile. Improbabile perché la LGSM, prima ancora di sfidare la Lady di Ferro, dovette fronteggiare un avversario ben più temibile: la diffidenza, l'ostilità e i pregiudizi di una società che ancora non aveva accettato pienamente la presenza e la libera manifestazione di gay e lesbiche al proprio interno. Un conflitto acuito ancor di più dal singolare contesto in cui hanno luogo le vicende del film: Onllwyn, un villaggio del Galles sede di una comunità di minatori che, da un giorno all'altro, si trovano ad ospitare e collaborare fianco a fianco con il piccolo esercito di attivisti capitanati dal giovane e ardimentoso Mark Ashton, impersonato con la giusta dose di carisma da Ben Schnetzer (Posh). Ma parallelamente al tema politico, il motivo di forza del copione di Stephen Beresford consiste nell'adottare, come punto di vista privilegiato sul racconto, lo sguardo ancora acerbo ed ingenuo del ventenne Joe Copper, costretto a nascondere la propria omosessualità ad una famiglia conservatrice e bigotta della middle class, ed al quale presta il volto l'attore George MacKay (intenso protagonista, l'anno scorso, del dramma psicologico Il superstite). Oltre ad offrire la cronistoria, a tratti bizzarra ma estremamente coinvolgente, del rapporto di solidarietà fra gli attivisti gay di Londra e le famiglie di minatori del Galles, Pride diventa così anche il racconto di formazione, e di progressiva, entusiasmante, dolorosa presa di coscienza, di un ragazzo alla ricerca della propria identità e del proprio posto nel mondo, in una realtà connotata da una radicata omofobia e da forme di intolleranza brutali o addirittura violente.
L'unione fa la forza
L'altro elemento di profonda intelligenza dello script di Beresford consiste nel cogliere e nello sfruttare tutti i paradossi e gli spunti di comicità insiti nell'accostamento fra la passione ideologica e l'eccentrica stravaganza (che però non scivola mai nella macchietta) dei giovani attivisti gay e la più rigida compostezza, oltre al machismo di facciata, dei minatori gallesi. Un contrasto perfino stridente, ma dal quale scaturirà un connubio di inaspettata potenza, vivificato da quel delizioso umorismo, di marca tipicamente britannica, che si smarca sia dai cliché, sia dalla gag ridanciana fine a se stessa. E non è un caso se le sequenze più riuscite di Pride risultano essere proprio quelle riguardanti le 'trasferte' dei membri della LGSM nel villaggio di Onllwyn, a contatto con i minatori e con le loro mogli: sequenze in grado di regalare parentesi gustosissime e battute esilaranti, ma anche momenti di sincera emozione nello scoprire la capacità di superare le reciproche differenze e di stringersi in un grande abbraccio comune.
Se poi, in un cast estremamente ampio e variegato, figurano attori del calibro di Paddy Considine, Bill Nighy ed una strepitosa Imelda Staunton (l'indimenticata Vera Drake di Mike Leigh), ai quali si aggiungono i validi Andrew Scott e Dominic West, insieme ad un gran numero di ottimi caratteristi e di interpreti azzeccatissimi pure per i ruoli minori (una su tutti, l'irresistibile Menna Trussler), allora il film di Warchus riesce davvero a spiccare il volo. E sebbene la costruzione narrativa non possa essere definita del tutto impeccabile, con la sua tendenza talvolta eccessiva a cercare il compiacimento del pubblico a scapito del livello di serietà o di verosimiglianza (si vedano le bislacche incursioni delle stagionate signore gallesi nei trasgressivi cruising bar di Londra), è pur vero che Pride si rivela un'opera talmente appassionata ed accattivante da farsi perdonare con facilità i suoi piccoli difetti, dimostrando una volta di più l'egregio stato di salute della commedia britannica contemporanea.
Conclusioni
Decisamente piacevole nel suo formidabile amalgama fra humor e pathos, tra l'affresco storico-sociale sulla difficile realtà della Gran Bretagna sotto il Governo di Margaret Thatcher e il tipico racconto di coming of age capace di coinvolgere e commuovere lo spettatore, Pride è una commedia sopraffina ed assai ben orchestrata, che trae forza dalla verve della splendida sceneggiatura di Stephen Beresford (al di là di qualche concessione di troppo alla comicità sopra le righe) e dal contributo di un cast corale all'interno del quale si fa apprezzare ogni singolo componente, dai giovani attori emergenti ai veterani più collaudati.
Movieplayer.it
4.0/5