Recensione La notte del giudizio (2013)

Un thriller dal mood carpenteriano, in cui la struttura dichiaratamente di genere non esclude un ragionamento sulla società americana e sua una sua ipotetica, agghiacciante deriva.

Sfogarsi o sopravvivere

In un periodo in cui, negli USA, è più forte che mai il dibattito sull'uso delle armi, e sull'opportunità o meno di una sua limitazione, un film come La notte del giudizio non lascia indifferenti. Il thriller di James DeMonaco, infatti, rappresenta insieme un approfondimento e un rovesciamento della discussione in corso: l'ipotesi che mette in scena, al tempo stesso semplice e agghiacciante, è in fondo la deriva estrema di una logica che dà ad ogni cittadino il diritto di difendersi con le armi. Diritto che qui, per una singola notte, diviene una sorta di obbligo, sommandosi a quello di offendere: durante quello che viene chiamato "lo Sfogo" (The Purge, che è anche il titolo originale del film) per 12 ore ogni crimine diventa legale, incluso l'omicidio. Le forze dell'ordine sono esautorate da qualsiasi compito di difesa dei cittadini: sta ad ognuno di essi proteggersi come può. La misura è stata presa in considerazione degli altissimi livelli raggiunti dalla criminalità, e dell'incapacità di un suo contenimento: sociologi, criminologi ed esperti teorizzano l'utilità di questa istituzione, che permette, per una sola notte, di dare libero sfogo a quegli istinti che, normalmente, una società civile reprime. Gli indici di criminalità e di violenza, drasticamente ridimensionati, sembrano dare ragione ai suoi sostenitori. Ma cosa succede quando ci si trova di fronte a qualcuno che, per la sua condizione sociale, è impossibilitato a difendersi? Cosa accade quando lo "Sfogo" esalta le differenze di classe, favorendo l'eliminazione dei più deboli? Sarà questo l'interrogativo a cui si troverà di fronte la famiglia Sandin, quando uno sconosciuto homeless, braccato, busserà alla sua porta.


Uno dei pregi di questo La notte del giudizio sta nella credibilità con cui la vicenda è messa in scena. L'approccio scelto per rappresentare un'ipotesi che, normalmente, sarebbe materia per un racconto sci-fi, è quello della riproduzione della contemporaneità: l'ambientazione si pone solo fra un decennio, e, a parte lo Sfogo, non ci sono differenze degne di nota tra la società attuale e quella vista nel film. Il robot manovrato dal giovane Charlie è l'unica concessione a un gusto e a un immaginario più propriamente fantascientifico; ma anche questo si rivela in realtà, più che altro, un (riuscito) espediente narrativo. L'aver calato un'idea così agghiacciante, che attualmente ripugna alla coscienza civile, in un contesto contemporaneo, la fa deflagrare e ne aumenta l'impatto: i rituali della vita moderna, i suoi ambienti, le sue convenzioni e pratiche sociali, convivono con l'attesa di una notte in cui tutto cambia, in cui la stessa idea di società umana viene sospesa. L'individualismo anarchico da cui è nata la società americana (in sé intimamente conservatore) viene portato così alle estreme conseguenze: non è un caso che, nel film, i politici che hanno introdotto questa pratica vengano definiti "Nuovi Padri Fondatori". Così come non è un caso che l'aspetto squisitamente filosofico, che riguarda l'opportunità di azzerare, sia pure per una sola notte, tutte le regole della convivenza civile, conviva con quello più propriamente politico: quello che vede gli oppositori dello Sfogo accusarlo (a ragione, per gli sviluppi della vicenda) di essere solo un modo, per la società, di liberarsi degli elementi più scomodi, di quei poveri ed emarginati che rappresentano il suo lato meno presentabile.

La notte del giudizio resta comunque, primariamente e dichiaratamente, un prodotto di genere. Le coordinate a cui il regista sceglie di rifarsi sono evidenti: non è un caso che lo stesso DeMonaco sia stato sceneggiatore, nel 2005, della nuova versione di Assault on Precinct 13. C'è, nel suo film, tutto quel mood carpenteriano che dà sostanza "politica" ad un film d'azione, che flirta a tratti con l'horror e persino con l'exploitation: con il capolavoro di Carpenter c'è in comune il tema dell'assedio, la visione degli assalitori come esseri (per larga parte del film) senza volto, la radicalità della messa in scena che si somma a quella del messaggio. Se è vero che non siamo negli anni '70, e che in quattro decenni il cinema, anche e soprattutto di genere, è completamente cambiato, è pur vero che DeMonaco sembra aver ben appreso e fatta sua quella lezione. La stessa, claustrofobica concentrazione dell'azione in un solo ambiente, e i rapidi squarci sull'esterno a suggerire una realtà folle, sono anch'essi di matrice carpenteriana. E' chiaro, poi, che le suggestioni e i riferimenti di questo thriller sono in realtà ben più vasti, spaziando dalla violenza dei Drughi di Arancia Meccanica a quella teorica, che si fa discorso sul cinema, di Michael Haneke e dei suoi due Funny Games. DeMonaco rielabora tutte le sue influenze e gioca col genere, in modo divertito, spingendo il suo discorso politico fino in fondo; rendendolo invero così esplicito da rischiare a tratti di cadere nel didascalismo. Tuttavia, la cattiveria della sua messa in scena, e l'atmosfera che il regista riesce a conferire al tutto, gli permettono di schivare sostanzialmente questo rischio.
Non è comunque un film perfetto, La notte del giudizio, vista la convenzionalità dei caratteri (molto schematici, se non stereotipati), certi passaggi affrettati e superficiali (la sottotrama del fidanzato di Zoey) nonché qualche momento, specie a ridosso dell'assedio, decisamente poco credibile. Ciò che conta è che il ritmo e la tensione, nel loro complesso, tengano bene, e che il film colpisca duro, grazie alla peculiarità del tema e al modo in cui è rappresentato. Passa persino in secondo piano, in questo senso, l'interpretazione di un pur bravo Ethan Hawke, coadiuvato da una Lena Headey che smette (momentaneamente) i panni della regina Cersei Lannister de Il trono di spade; in un prodotto che si pone esattamente a metà tra il low budget (di cui il film ha l'anima e la durata: 85 minuti) e un cinema di serie A che si affida al fiuto, anche qui vincente, di un produttore come Michael Bay, nonché alle sue frequenti incursioni nel "genere" meno mainstream.

Movieplayer.it

3.0/5