Gli amici tieniteli stretti, ma i nemici anche più stretti.
"Il Padrino, parte II comincia dove terminava il film precedente: prima dei titoli ci viene offerto uno sguardo dietro quella porta. Il nuovo re è immerso nell'oscurità, il volto illuminato e impassibile mentre gli baciano la mano. Il familiare valzer de Il Padrino risuona in un tono ambiguo, malinconico. È la nostra immaginazione, o il volto di Michael sta iniziando a marcire?". Nella recensione de Il Padrino, parte II pubblicata sulle colonne del New Yorker, Pauline Kael illustra magistralmente il trait d'union fra il primo e il secondo capitolo della saga criminale di Francis Ford Coppola: una porta si chiude davanti agli occhi di Kay Adams e dietro quella porta viene incoronato un nuovo sovrano.
L'inquadratura del viso di Diane Keaton, specchio di un'angoscia troppo terribile per prendere forma e voce, resta uno dei più formidabili explicit nella storia del cinema. Rispetto al finale de Il Padrino, il brevissimo prologo de Il Padrino, parte II ci fornisce un ideale controcampo: un primo piano di Michael Corleone, pronto a succedere al defunto don Vito, al punto da replicare la postura e i gesti del padre. Tutt'intorno a lui, quella stanza depositaria di segreti inconfessabili è dominata da una fitta rete di oscurità, in cui l'unica fonte di luce è talmente misteriosa da apparire quasi innaturale.
Michael Corleone e il suo trono di sangue
Del resto, ancor più di quanto accaduto due anni prima per il film capostipite, ne Il Padrino, parte II la fotografia di Gordon Willis è imperniata su toni estremamente cupi, con i personaggi immersi molto spesso in un buio claustrofobico. È una cifra stilistica ben precisa, ma che veicola anche un'importante valenza tematica: Michael Corleone, erede del trono di sangue di un clan della Mafia italoamericana, è un "principe delle tenebre", costretto a vivere in una notte perenne. E Francis Ford Coppola, insieme a Gordon Willis, non perde occasione per contornare di ombre il volto di Al Pacino, sottolineando il silenzioso tormento e la raggelante crudeltà del protagonista.
Quando, nell'ottobre 1973, Francis Ford Coppola dà avvio alle riprese de Il Padrino, parte II, l'impresa che gli si prospetta non è certo semplice: si tratta di dar seguito a un'opera epocale, che aveva registrato un successo senza precedenti, si era aggiudicata l'Oscar come miglior film e aveva segnato un autentico spartiacque non solo all'interno della New Hollywood, ma nella cultura cinematografica di massa. Inoltre Coppola e il suo co-sceneggiatore Mario Puzo, autore del romanzo alla base de Il Padrino, scelgono un approccio narrativo perfino più ambizioso: costruire un duplice racconto, in cui la vicenda di Michael Corleone alla fine degli anni Cinquanta sia sviluppata in parallelo con la storia del padre Vito, dalla sua fuga dalla Sicilia nel 1901 all'affermazione sulla scena criminale newyorkese negli anni Venti.
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La solitudine dell'antieroe
Il risultato è un ritratto della Mafia in cui diverse linee temporali si intersecano nell'arco di duecento minuti di durata, rivelando un sistema di echi e di suggestioni che paiono rincorrersi fra presente e passato. Dopo la sua presentazione ufficiale, il 12 dicembre 1974, una settimana prima del debutto nelle sale statunitensi, Il Padrino, parte II suscita gli entusiasmi della stampa, ma anche perplessità e critiche legate soprattutto alla sua struttura cronologica. Il tempo però darà ragione a Coppola: pur senza replicare i record di due anni prima, l'opera richiama trenta milioni di spettatori solo in patria, ottiene sei premi Oscar, inclusi la tripletta per miglior film, regia e sceneggiatura a Coppola e il trofeo come miglior attore supporter per un semisconosciuto Robert De Niro (il Vito Corleone adulto), e si guadagnerà una reputazione pari a quella del classico del 1972.
Ma in confronto alla grandezza epica de Il Padrino, alla tensione esplosiva delle faide fra clan rivali e al dinamismo di un gangster movie corredato di momenti d'azione e di colpi di scena, Il Padrino, parte II adotta un taglio differente: un ritmo a tratti disteso e compassato, un'atmosfera più sinistra, quel costante senso di sofferenza e di amarezza che trapela dagli sguardi di Michael Corleone e dagli scambi fra i personaggi. Perché se Il Padrino dipingeva l'ascesa di un nuovo, giovane boss nel mondo della malavita, ascesa accompagnata dalla furiosa intensità di un antieroe shakespeariano, il nucleo del sequel è la solitudine di questo antieroe: un Macbeth obbligato a difendere il trono spargendo altro sangue, consapevole degli implacabili meccanismi che tengono in movimento la ruota del potere.
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Aspettando la fine
In prossimità dell'epilogo, Tom Hagen, l'avvocato interpretato da Robert Duvall, ha un dialogo emblematico con Frank Petrangeli (Michael V. Gazzo): Frank paragona i Corleone all'Impero Romano, dove i congiurati sconfitti avevano la possibilità di "bucarsi le vene e aspettare la fine". Una fine che arriverà puntualmente per Petrangeli, così come per gli altri 'traditori' del nuovo don Corleone, in una sequenza in cui il montaggio alternato rievoca l'analogo, celeberrimo regolamento di conti al termine de Il Padrino. È l'esempio forse più lampante della natura speculare dei due film, ma anche della sanguinosa ineluttabilità della sorte del protagonista, come in una tragedia greca in cui i figli devono raccogliere l'eredità e le colpe dei padri.
Ma a rendere unico e straordinario questo secondo capolavoro di Coppola (il terzo se consideriamo il coevo La conversazione, uscito appena otto mesi prima) è il modo in cui nega allo spettatore gli appigli 'romantici' o l'effetto catartico indotto dalle scene più violente e adrenaliniche de Il Padrino; tornando a prendere in prestito le parole di Pauline Kael, "stavolta Coppola controlla i nostri responsi emotivi in modo che l'orrore scorra attraverso ogni cosa e nessuna azione fornisca uno sfogo melodrammatico". In altri termini, Il Padrino, parte II è un film spaventosamente funereo; lo sarà, sedici anni dopo, pure l'ultimo capitolo della trilogia, così come il recentissimo The Irishman di Martin Scorsese, ideale canto del cigno di quell'immaginario consacrato proprio da Coppola.
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'Fredo, tu per me non sei più niente'
E pur con i dovuti distinguo, si può individuare un filo sottile che arriva al Frank Sheeran di Robert De Niro partendo appunto da Michael Corleone. Ferocemente determinato nel difendere il padre Vito e il loro impero familiare ne Il Padrino, ora Michael non è più il gangster con la pistola in pugno: è un personaggio spettrale e mortifero che genera il vuoto attorno a sé, con una fermezza glaciale che lo rende simile a un vampiro (e la performance di Al Pacino è una lectio magistralis di recitazione interiorizzata). L'unico caso in cui le sue emozioni prendono il sopravvento è durante la rottura con la moglie Kay, quando la rabbia di Michael romperà gli argini per abbattersi sulla sola persona in grado di fronteggiarlo a testa alta.
Ma si tratta di una parentesi, un cedimento momentaneo, prima di rindossare la sua maschera di imperturbabilità e di chiudere un'altra porta - e sempre in senso letterale - davanti a Kay. Perché un'ultima vendetta, la più atroce, attende Michael il tiranno, nella brutale riaffermazione della propria autorità: l'esecuzione del fratello Fredo (John Cazale). Due sagome scure su una barca, nel lago, al fioco chiarore del tramonto; il controcampo di Michael, immobile davanti alla finestra, mentre l'Ave Maria pronunciata da Fredo viene interrotta da un colpo di pistola; e un ulteriore cambio di prospettiva, verso quella barca su cui si è appena consumato l'assassinio di Giuda, ma anche di Abele. Una sequenza da annoverare fra le vette più alte che il cinema americano ci abbia mai consegnato.