Alla fine del 2021 (inizio 2022 per l'Italia) è uscito nelle sale Matrix Resurrections, quarto capitolo del franchise ideato dalle sorelle Wachowski. Un sequel che è anche in parte reboot, con l'intenzione - da parte della Warner Bros. - di rilanciare uno dei suoi universi cinematografici di punta, anche se la decisione di farlo debuttare in contemporanea in streaming su HBO Max negli Stati Uniti (come per tutti i film della major usciti nel 2021) ha inciso in negativo sugli incassi. A questo si aggiunge una reazione divisa da parte del pubblico, tra chi ritiene questo quarto episodio un degno successore del capostipite (dopo che i due sequel precedenti avevano in parte deluso) e chi lo considera un tradimento dello spirito del franchise, principalmente per l'assenza di alcuni degli attori principali della saga. Ma che il film, ora disponibile su Infinity+, abbia diviso non è, in sé, un male. Anzi, è un marchio d'onore, che rende giustizia al coraggio di Lana Wachowski, tornata a raccontare le gesta di Neo e Trinity a quasi vent'anni da quello che doveva essere l'addio al mondo virtuale.
Questione di libertà
In precedenza, ci è capitato, su questo sito, di approfondire la questione del final cut, il privilegio - non un diritto - concesso a certi registi, solitamente perché prestigiosi e/o di successo. Non è una conditio sine qua non per la riuscita del film (basti pensare a Quentin Tarantino, che stando a fonti bene informate durante il sodalizio produttivo con Harvey Weinstein qualche problema lo aveva avuto), ma è un argomento che continua a riaffiorare periodicamente, soprattutto quando si parla di blockbuster, ambiente dove spesso è all'ordine del giorno il compromesso fra la visione dei cineasti e quella dello studio, che è il proprietario del progetto e finanzia l'operazione (e in tale ambito ha raggiunto proporzioni epiche il disaccordo tra la Warner Bros. e Zack Snyder, con quest'ultimo che è passato a Netflix dove la libertà creativa è garantita). Particolarmente spinosa è la questione dei franchise, dove ci si può aspettare una certa uniformità estetica e sovente bisogna tener conto del piano più ampio, a volte a discapito dell'identità individuale del film.
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Con Matrix Resurrections non ci sono dubbi sulla visione dominante, che è chiaramente quella di Lana Wachowski, perché difficilmente la Warner non avrebbe esercitato il diritto di veto su certi aspetti del film. Perché più che un sequel convenzionale del primo Matrix, è un legacyquel (in senso letterale, perché riflette sull'eredità dell'originale) filtrato attraverso l'approccio di Scream. Un film dove Neo si risveglia, di nuovo con l'identità di Thomas Anderson, in un mondo simile al nostro, dove la trilogia esiste come prodotto di finzione, inventato da lui, e la società madre - la Warner, appunto - vuole tornare a sfruttare il franchise, con o senza la partecipazione dei creatori originali. Più o meno esattamente quello che è successo nella realtà con questo film, che la regista ha accettato di fare - in cambio della libertà creativa assoluta - come elaborazione del lutto in seguito alla morte dei genitori (mentre la sorella Lilly Wachowski, per lo stesso identico motivo, ha preferito non tornare all'ovile).
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Interrogarsi sul blockbuster
Il ritorno in scena di Neo è quindi una riflessione sulla natura stessa del franchise, sul suo rapporto con i fan, sull'esperienza dell'appassionato che formula mille teorie e si aspetta determinate cose (incluso il momento dopo i titoli di coda, che qui è presente in chiave estremamente autoironica). È un film che mette alla prova il concetto del blockbuster nell'era dei supereroi e delle storie scritte con lo stampino (anche i lungometraggi più riusciti delle scuderie Marvel e DC tendono a seguire una formula che riprende le teorie narrative di Joseph Campbell sul viaggio dell'eroe). È una sfida nei confronti dello spettatore, che non solo si sente dire che le varie ipotesi sui sottotesti dei film precedenti sono tutto sommato baggianate, ma si ritrova davanti a un sequel dove la filosofia cede il posto all'amore e la componente action, per quanto ben eseguita, ha un ruolo minore.
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E il fan, sfidato nella sua presunta certezza su dove dovrebbe andare a parare quello che per certi versi è considerato un testo sacro, reagisce con stupore, anche rabbia, come accaduto quasi cinque anni fa con Star Wars: Gli ultimi Jedi. E che esistano film simili in un panorama dove il già visto sta assumendo proporzioni grottesche (restando nella galassia lontana lontana, lo zoccolo duro che esulta per un Mark Hamill giovane interamente creato al computer, voce inclusa) è qualcosa di positivo, perché l'abitudine e la nostalgia possono soffocare la creatività. Ecco, Lana Wachowski a tale eventualità - un sequel fatto senza la sua partecipazione, solo per sfruttare il brand - ha risposto firmando un'opera spudoratamente, dolorosamente, sinceramente sua. Un oggetto anomalo che invita il pubblico a interrogarsi sulla mancanza di varietà in ciò che oggi attira gli spettatori al cinema, a discapito di ogni forma di racconto che non sia uno spettacolo allo stato puro. Un oggetto da riscoprire con una certa apertura mentale, la stessa di Neo quando ha accettato di entrare nella tana del Bianconiglio digitale.