1975-2015. Un quarantennio che ha visto molte, e decisive, trasformazioni nell'ambito del cinema statunitense, in un'evoluzione che avrebbe portato a un cambiamento radicale nei rapporti tra produzione, distribuzione e fruizione del prodotto cinematografico; ciò, parallelamente a una modifica sostanziale del gusto e della stessa percezione dell'oggetto-film. Non è un caso che molti di questi meccanismi siano stati anticipati dal successo di quello che, proprio quarant'anni orsono, fu forse il primo blockbuster in senso moderno della storia del cinema: il prototipo, com'è stato definito, del "blockbuster estivo", quello che ha sdoganato la stessa stagione calda come foriera di spettatori e fonte di incassi.
Lo squalo, opera fondamentale per la carriera di Steven Spielberg, avevamo già potuto rivederlo, e riapprezzarlo, tre anni fa, in occasione della sua uscita in Blu-Ray col restauro digitale eseguito dalla Universal, per il centenario della nascita della major. Ora che cade un'altra ricorrenza, tutta appannaggio del capolavoro spielberghiano, qualche riflessione in più è d'obbligo. Perché il film di Spielberg, oltre ad essere, a tutt'oggi, insuperato modello di tensione, macchina da brividi perfetta e capostipite di un intero filone cinematografico, fu anche il punto di arrivo di un movimento che aveva segnato a fondo il cinema di quegli anni, l'inizio della fine di una precisa stagione del cinema statunitense, e l'avvio di una diversa concezione del prodotto filmico. Una pellicola anticipatrice sotto molti aspetti, che si incaricò di annunciare che molto, nell'industria cinematografica, si stava trasformando. In modo irreversibile.
La poetica, l'industria
In quegli anni, è bene ricordarlo, Spielberg faceva parte di quel movimento (i "movie brats", tra cui militavano anche Coppola, Lucas e Scorsese) che aveva dato una scossa al cinema americano, affermando il primato del regista sulla produzione, e dando vita a una concezione hollywoodiana della "politica degli autori". Il futuro regista di E.T. L'Extraterrestre, insomma, al suo secondo lungometraggio per il cinema, era esponente di quella New Hollywood che aveva portato una decisiva ondata di rinnovamento (dalle implicazioni persino rivoluzionarie) in un contesto prima immobile e sclerotizzato. Lo squalo, progetto dal budget relativamente basso (4 milioni di dollari, poi più che raddoppiati nel corso delle riprese) nasceva in quell'humus culturale, fecondo e un po' bohémien: figlio, anch'esso, di quella gioiosa incoscienza creativa che aveva coinvolto le stesse major, e che portò i produttori Richard D. Zanuck e David Brown ad acquistare i diritti del romanzo di Peter Benchley senza essere sicuri di poter, effettivamente, realizzare il film.
La lavorazione fu effettivamente qualcosa di vicino ad un incubo, con la sceneggiatura più volte rimaneggiata, i tre squali meccanici oggetto di ripetuti malfunzionamenti, continue avversità atmosferiche, e un'abnorme lievitazione del budget e dei tempi di riprese (159 giorni, contro i 55 inizialmente stimati). Tuttavia, quando i preoccupati responsabili della Universal andarono a visitare il set, si trovarono di fronte ad un regista dall'atteggiamento più rassicurante del previsto: Spielberg, a differenza di molti suoi colleghi dell'epoca, non era incline a eccessi e colpi di testa, non faceva uso di droghe, e soprattutto era disposto a sacrificare, in parte, la sua autorialità. Segno, quest'ultimo, che la stessa New Hollywood stava cambiando dall'interno. Il successo planetario del film (due anni prima di Guerre stellari) avrebbe dimostrato che quello stesso movimento, coi suoi autori, era capace di sfondare al botteghino; ma avrebbe anche posto le basi per la sua fine, con un rinnovato peso della produzione sul risultato finale del film.
La strategia distributiva adottata per il film di Spielberg avrebbe segnato un'ulteriore svolta: l'uscita massiccia in un gran numero di sale, preceduta da un forte battage pubblicitario, andava a sostituire la tendenza alle piccole distribuzioni locali, col graduale aumento del numero di copie. Anche dal lato della distribuzione e del marketing, una nuova concezione di blockbuster andava affermandosi.
Paura e sfida
Rivedere oggi il film di Spielberg significa non soltanto gustare un inarrivabile saggio di tensione, né semplicemente cogliere un frammento (significativo) di una precisa fase dell'evoluzione del cinema hollywoodiano: significa, anche, essere testimoni, nella carriera del regista, di quel punto di equilibrio, magico e forse mai più raggiunto, tra poetica personale ed esigenze spettacolari, classicità e apertura a nuovi modelli di narrazione, potere affabulatorio e profondità di sguardo. Balzano all'occhio, in modo evidente, le affinità tra Lo squalo e il primo film del regista (nato compe progetto televisivo), Duel: opere accomunate da una concezione essenziale dell'orrore, dalla sua esplicitazione in un'entità mitica (meccanica o animalesca), dalla dimensione di sfida che oppone l'uomo alla personificazione delle sue paure. Laddove l'opera di esordio di Spielberg, tuttavia, scarnificava questa concezione della paura, riducendola a pura essenzialità narrativa, mettendola al servizio di uno scontro archetipo tra l'uomo e la macchina, qui il regista non ha paura di cimentarsi col racconto: al contrario, descrive con acume una comunità in cui il mostro trova terreno fertile per la sua azione, già inevitabilmente corrotta dalla sete di denaro, chiusa nelle sue ottuse certezze e in una tranquillità fragile ed illusoria.
Una comunità che si prepara ad auto-celebrarsi in una festa dell'Indipendenza ridotta a baracconata fieristica, facile preda di una bestia mossa, invece, soltanto dall'istinto primario (quello di nutrirsi). Ancora uno scontro archetipico, quello tra l'uomo e la natura, in un contesto tuttavia squilibrato, in cui il primo ha già predato la seconda, e quest'ultima si prepara a restituire il colpo.
Nella seconda parte del film, quella in cui il terreno dello scontro si sposta in mare, il regista accentua la dimensione mitica del confronto, recuperando suggestioni di un classico come il Moby Dick di Herman Melville. L'equivalente spielberghiano del capitano Achab, il rude Quint interpretato da Robert Shaw, soccombe al mostro sprofondando nelle sue fauci, oppresso dalla sua ossessione e dal suo antico desiderio di vendetta contro gli squali; anche la cieca fede nella scienza, personificata dallo studioso col volto di Richard Dreyfuss, deve arrendersi alla bestia (ed è a un passo dal venirne sopraffatta). Solo il misto di razionalità e istinto del poliziotto interpretato da Roy Scheider, colui che fin dall'inizio era stato consapevole del pericolo, riesce infine ad aver ragione della minaccia. A caro prezzo, e non senza un fondo di inquietudine: l'Orca (peschereccio dal nome significativo) è distrutta, Quint è morto, la comunità ha pagato a caro prezzo la sua stoltezza. Nulla potrà più essere come prima, ora che il velo che non faceva vedere l'orrore è caduto: e il mare, quello in cui Scheider e Dreyfuss restano alla deriva, resta possibile fonte di nuovi pericoli.
Fauci di celluloide
Sarebbe praticamente impossibile elencare tutti i cloni, le imitazioni, le varianti sul tema e i rifacimenti non ufficiali del film di Spielberg. In questo senso, Lo squalo, più che un film, sembra essere diventato esso stesso un'idea di cinema, un pezzo di immaginario collettivo che resiste all'usura, l'emblema stesso della natura assassina (almeno di quella che viene dal mare) sul grande schermo. Non è un caso che il classico tema di John Williams (mai la mera successione di due note, in un film, ha raggiunto una simile carica di tensione) sia stato più volte ripreso e parodiato, al punto da essere ormai identificato tout court con l'attacco di uno squalo.
In attesa di capire se il paventato remake ufficiale del film di Spielberg, di cui si vociferò due anni orsono, vedrà mai la luce (operazione che, dato l'uso intensivo e - è il caso di dirlo - predatorio che si è fatto del tema, ci sembra di utilità quantomai dubbia) ci limiteremo qui a citare alcuni dei cloni più significativi, o semplicemente curiosi, del capostipite. A cominciare dal franchise ufficiale che esso generò, tre sequel sempre più deboli (datati rispettivamente 1978, 1983 e 1987) di cui comunque salveremmo, almeno parzialmente, il primo (Lo squalo 2 di Jeannot Szwarc, ancora con Scheider).
Se i primi a sfruttare l'onda lunga del successo del film di Spielberg furono gli stessi produttori americani, con il misconosciuto Mako - Lo squalo della morte (datato 1976) l'Italia, patria del remake non ufficiale ed alimentare, avrebbe atteso sei anni per offrirne la sua versione: questa arrivò nel 1981, ad opera di Enzo G. Castellari, col titolo L'ultimo squalo. Un prodotto, quello di Castellari, realizzato nel solco dei tanti cloni e pseudo-sequel dei successi d'oltreoceano di quegli anni (Zombi 2 di Lucio Fulci, Alien 2 sulla Terra di Ciro Ippolito) che tuttavia riscosse un inaspettato successo negli States; al punto da spingere la Universal a una vittoriosa causa per plagio, che provocò infine il ritiro del film dal territorio americano. Sempre nel nostro paese, fu Lamberto Bava a tentare di nuovo, tre anni dopo, un'operazione analoga a quella di Castellari, ottenendo risultati molto più modesti nel suo Shark: Rosso nell'oceano. Ma l'idea di una minaccia acquatica, e carnivora, si estende in quegli anni al di fuori dello stretto recinto dei film con protagonisti gli squali: si hanno, così, varianti sul tema come quella di Joe Dante col suo Piranha, del 1978 (un sequel, Piraña paura di James Cameron, nel 1981, e un remake, Piranha 3D di Alexandre Aja, nel 2010); o, ancora, quella della produzione italo-americana Tentacoli di Ovidio G. Assonitis (1977), cast infarcito di vecchie glorie (John Huston, Henry Fonda, Shelley Winters) per un horror in cui una piovra assassina semina la morte in una cittadina californiana. Se, in tempi più recenti, la stereoscopia ha dato nuova forza al fascino del predatore marino per eccellenza (nel comunque modesto Shark di Kimble Rendall, presentato fuori concorso a Venezia, nel 2012) una menzione in ambito low budget va fatta anche alla californiana Asylum: che, col televisivo Sharknado (2013) confeziona un nuovo (s)cult del trash divertito e consapevole, che mescola pericolosamente squali e disastri meteorologici, conquistandosi un nutrito seguito di ammiratori e originando (per ora) due sequel. Esempi variegati e diversissimi di un filone sterminato, prodotti generati da un'unica matrice il cui fascino (e la cui influenza sull'immaginario cinematografico) non accennano a tutt'oggi a diminuire.