We can beat them for ever and ever/ Oh, we can be heroes just for one day
All'annuncio delle nomination per la novantaduesima edizione degli Oscar, una delle categorie che sembrano aver messo d'accordo tutti o quasi è stata quella per il miglior film dell'anno: con un totale di ben nove candidati, i membri dell'Academy sono riusciti a trovare spazio per tutte le pellicole più acclamate del 2019, da The Irishman a Parasite, da Storia di un matrimonio a Piccole donne. Due titoli però, tra i "magnifici nove", sembrano aver spaccato le platee e polarizzato i giudizi: uno è Joker di Todd Phillips, l'altro Jojo Rabbit di Taika Waititi, che ha registrato complessivamente sei nomination, fra cui miglior sceneggiatura adattata per Waititi e miglior attrice supporter per Scarlett Johansson.
Tratto (molto liberamente) dal romanzo Il cielo in gabbia di Christine Leunens, Jojo Rabbit afferisce a un filone cinematografico che ha sempre attirato notevole attenzione presso le giurie dei premi hollywoodiani: quello dei film ambientati durante la Seconda Guerra Mondiale e/o incentrati sull'antisemitismo e l'Olocausto. Si tratta del "tema importante" per antonomasia, quasi un certificato di prestigio a prescindere; un tema che, in questa occasione, viene declinato nel genere della commedia, secondo una chiave insolita ma nemmeno troppo (fra i più illustri 'predecessori', Vogliamo vivere! di Ernst Lubitsch e La vita è bella di Roberto Benigni). Analizziamo dunque i motivi che hanno portato Jojo Rabbit a diventare uno dei film più incensati, ma al tempo stesso pure più divisivi dell'annata appena trascorsa...
Jojo Rabbit e il suo amico Adolf
Jojo Rabbit corrisponde al nomignolo assegnato con intento dispregiativo a Johannes Betzler, interpretato dall'ottimo Roman Griffin Davis: un bambino di dieci anni, membro entusiasta della Gioventù hitleriana, che ha assorbito a tal punto il culto del Führer da essersi creato un amico immaginario con le fattezze di Adolf Hitler. Già nell'impostazione, dunque, l'opera di Waititi (che riserva per sé il ruolo di Hitler) si discosta in maniera recisa dalla fonte letteraria: mentre il protagonista del romanzo è un soldato diciassettenne che torna dal fronte dopo una ferita di guerra, il Johannes del film è molto più piccolo - e pertanto molto più 'innocente' - ed è immerso in una dimensione immaginifica profondamente legata all'infanzia, rimarcata dall'inserto di questo fittizio Hitler buffonesco che rievoca il Charlie Chaplin de Il grande dittatore.
Come già sottolineato nella nostra recensione di Jojo Rabbit, il nuovo lavoro di Taika Waititi è modellato in buona parte sulla sensibilità e le peculiarità del regista neozelandese: in primis, quei toni farseschi e dalle tinte surreali mediante i quali l'orrore del totalitarismo risulta mitigato da una dolcezza malinconica e fiabesca. Un aspetto, quest'ultimo, rimarcato dallo stile e dall'estetica adottati da Waititi: sulle colonne di Variety, Jojo Rabbit è stato definito non a caso "un film di Wes Anderson ambientato durante il Terzo Reich" e, con specificità ancor più 'perfida', "una specie di Moonrise Kingdom con le svastiche". Perfino la musica contribuisce a mantenere il racconto immerso in un determinato mood: il film si apre allegramente sulle note della versione tedesca di I Want to Hold Your Hand dei Beatles e si chiude, in una scena di grande intensità emotiva, su quelle di Heroes di David Bowie.
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Da Toronto agli Oscar, il successo più contestato dell'anno
Un approccio di questo tipo, per quanto infinitamente rischioso, può rivelarsi efficacissimo per il coinvolgimento di un ampio pubblico: è quanto accaduto poco più di vent'anni fa, a livello mondiale, al più impressionante fenomeno cinematografico italiano dell'epoca contemporanea, il succitato La vita è bella. Ma rispetto al trionfo (non esente comunque da critiche) del film di Benigni, la ricezione per Jojo Rabbit è stata ben più contrastata. Da una parte, a settembre, la vittoria del People's Choice Award al Festival di Toronto, riconoscimento che di solito anticipa un consenso trasversale (i precedenti destinatari del premio erano stati La La Land, Tre manifesti a Ebbing, Missouri e Green Book), e una valanga di candidature nelle scorse settimane, culminata nelle sei nomination da parte dell'Academy.
Dall'altra, in compenso, non troppi elogi dalla stampa di settore, ma al contrario recensioni tiepide e un cospicuo numero di stroncature: su Metacritic, con un mediocre punteggio di 57/100, la commedia di Taika Waititi si è attestata come il titolo meno apprezzato fra i candidati all'Oscar per il miglior film (addirittura sotto i 59/100 di Joker). E pure sul piano commerciale non tutto è andato come sperato, come testimoniano i ventidue milioni di dollari raccolti finora negli USA: una cifra discreta, ma ben lontana da quella di un autentico crowdpleaser, per quanto la pioggia di candidature contribuirà senz'altro a dare un'ulteriore spinta agli incassi.
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Conigli o eroi?
Come spiegare un'accoglienza tanto disparata ed eterogenea? Innanzitutto, uno dei probabili motivi alla base dell'appeal di Jojo Rabbit si può individuare in una delle sue caratteristiche lampanti: quello di Waititi è un film che funziona. A un livello superficiale, magari, eppure centra gli obiettivi preposti: ha un protagonista, il piccolo outsider Jojo, che non fatica a farsi amare e a conquistarsi l'affetto degli spettatori; è corredato da numerosi momenti divertenti o ironici; sviluppa con abilità le due linee sentimentali del racconto, ovvero il rapporto di Jojo con la madre Rosie (Scarlett Johansson) e con la teenager ebrea Elsa Korr (Thomasin McKenzie); ha un valore didattico, nel senso che è in grado di 'parlare' anche a un pubblico di giovanissimi e di veicolare, in maniera semplice e lineare, il suo messaggio contro l'odio e i pregiudizi.
Basta questo a farne un grande film? Assolutamente no, e difatti Jojo Rabbit, pur riconoscendone i meriti, non è certo un grande film: la sua componente satirica appare spesso priva di mordente; l'equilibrio fra dramma e commedia non è sempre perfetto, né così spontaneo; e la descrizione del regime hitleriano è appena accennata e a tratti discutibile, come per il Captain Klenzendorf (Sam Rockwell), personaggio irrisolto ed ambiguo (qual è il ruolo di questo nazista 'simpatico' ma fedele fino all'ultimo al Terzo Reich?). Tuttavia, con i suoi difetti e i suoi limiti, Jojo Rabbit conserva il vantaggio di esprimere appieno la propria natura di feel-good movie e di non sottovalutare il potere dell'empatia: quell'empatia che, nell'epilogo, si sprigionerà in un'esplosiva danza liberatoria fra le macerie di Berlino, ricorrendo a una melodia inconfondibile per ricordarci che "possiamo essere eroi, anche solo per un giorno".
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