Tra i tanti eventi proposti dal Premio Sergio Amidei al pubblico di Gorizia ve ne era uno, quest'anno, dalle implicazioni particolarmente suggestive. Qualcosa per cui guardare un cielo stellato con occhio diverso, più complice, curioso, partecipe e attento. Riflettori puntati su Selene: non ci deve stupire, considerando che un'apposita sezione della manifestazione cinematografica friulana è sorta per rendere omaggio a lei, la Luna, in circostanze a dir poco singolari. Sono trascorsi 40 anni esatti dalla storica passeggiata sul suolo lunare di Armstrong e Aldrin, i pionieri della missione Apollo 11.
Ed è così che l'eco dei loro passi è giunto fino agli spettatori del Premio Amidei, scortati nel loro peregrinare tra astri di celluloide da una selezione di pellicole tutt'altro che scontata, in cui a capolavori riconosciuti come 2001: Odissea nello spazio si sono alternati altri titoli, alcuni dei quali finiti da tempo nel dimenticatoio. Ma è toccato comunque a mastro Stanley Kubrick il ruolo del mattatore. Concepita per celebrare degnamente l'anniversario dell'allunaggio, la proiezione della copia restaurata di 2001: Odissea nello spazio ha avuto luogo proprio la sera del 20 luglio nell'arioso scenario di Parco Coronini, riadattato ad arena per ospitare quotidianamente pellicole in concorso, cortometraggi e prestigiose anteprime. Gli altri appuntamenti di questa sezione, "la Luna prima della Luna", ci hanno invece riportato al chiuso, in quella saletta del Kinemax che è inoltre servita da palcoscenico per una lunga serie di incontri e tavole rotonde. È così giunto il momento di una domanda che farà storcere il naso agli astrofisici: si ride sulla Luna? Evidentemente sì, nonostante la cronica mancanza di ossigeno. I nomi che rendono meno folle tale affermazione sono quelli di Totò e Buster Keaton. E per essere sinceri fino in fondo, il divertimento più genuino è arrivato proprio grazie alla scombiccherata parodia dell'immaginario fantascientifico anni '50, Totò nella Luna, col genio napoletano chiamato a duettare con un irresistibile Ugo Tognazzi, seguendo il canovaccio delle missioni spaziali, dei film e della letteratura popolare di genere che i mass media dell'epoca propinavano in dosi massicce. Meno morbido l'allunaggio (finto, peraltro, trattandosi di un viaggio stellare dall'esito farsesco) del grande comico americano in Buster Keaton nella Luna, pellicola realizzata in Messsico nel 1946 ed ulteriore testimonianza di come l'attore, la cui gestualità ha sempre raggiunto vette formidabili, nell'età del sonoro abbia dovuto accettare partecipazioni a filmetti dall'umorismo scarno e tendenzialmente infantile, come nel caso appena citato.
Nel setacciare le altre chicche ripescate per l'occasione, il nostro sguardo si è posato nostalgicamente su Base Luna chiama Terra (First Men in the Moon, 1964), pittoresco esempio di science fiction d'altri tempi. Ispirato a un romanzo di H. G. Welles, il plot del film di Nathan Juran sovrappone alle moderne ricerche spaziali il ricordo di un'iperbolica impresa ottocentesca, in stile Verne, messa in scena con adorabile cura dei costumi e della componente scenografica. Artigianato di gran classe, insomma.
Fino ad ora ci siamo trattenuti nell'orbita lunare, ma è giunto il momento di rimettere i piedi per terra, così da potervi introdurre lo sbarco in Friuli di un altro "alieno", il più atteso in assoluto: Paul Schrader. Regista, sceneggiatore, critico, intellettuale a tutto tondo, il cineasta americano ha lasciato un segno profondo nel cinema degli ultimi decenni, un segno tale da giustificare ampiamente il Premio all'Opera d'Autore che la kermesse goriziana ha voluto tributargli. L'invito è stato anche un pretesto per rivedere sul grande schermo alcune delle opere, intrise di un'etica profonda, che Schrader ha realizzato in qualità di sceneggiatore (Toro scatenato, per Martin Scorsese; Yakuza, per Sidney Pollack) o dirigendole per conto proprio (American Gigolo, Affliction, Mishima). Il suo film d'esordio, Tuta blu (Blue Collar, 1978), è stato forse il recupero più coinvolgente, essendo una delle rare pellicole in cui il disagio della classe lavoratrice americana sia stato efficacemente messo a nudo, con tutte le implicazioni sociali ed esistenziali del caso. Da segnalare, tra gli operai logorati dal peso di un sistema produttivo cinico e iniquo, la presenza di un attore che ad Hollywood ne avrebbe poi fatta di strada, il già allora determinatissimo Harvey Keitel.
Il cinema di Paul Schrader non è stato declinato, però, soltanto al passato. L'incontro dell'autore con la stampa in una cornice deliziosamente old-fashioned, la Sala del Conte del Castello di Gorizia, ha posto le premesse di una visione traboccante di aspettative, l'anteprima italiana di Adam Resurrected. Schrader, nei due diversi incontri con pubblico e giornalisti avvenuti il 22 luglio, ha messo in guardia l'uditorio sottolineando il valore della metafora quale spinta creativa del suo ultimo film, così lontano dalle più standardizzate rappresentazioni dell'Olocausto nell'immaginario cinematografico contemporaneo. La sera stessa, nell'abituale location di Parco Coronini, è avvenuta quella proiezione da cui è giunta puntuale conferma di quanto lo spunto offerto dall'autore fosse veritiero. Adam Resurrected, ispirato al romanzo dello scrittore israeliano Yoram Kaniuk, è in effetti un film problematico, forse non completamente risolto ma abilissimo nel trasfigurare il dolore rimettendone in gioco la rappresentazione stessa.
Adam Stein è un ebreo tedesco, che negli anni '20 aveva saputo stregare le platee dei teatri di cabaret, costretto poi a comportarsi da cane per compiacere un mediocre ufficiale nazista e sopravvivere nell'inferno del lager. Ma questo personaggio di fantasia, Adam Stein, saprà reagire al proprio trauma, con tanto di famiglia annientata durante la guerra, ricoprendo un ruolo assolutamente inaspettato nell'ospedale psichiatrico israeliano dove gli è stata data accoglienza; ed è lì, in questo luogo di dolore circondato dal deserto, che la riabilitazione di Adam passerà attraverso l'incontro con uno strano ragazzo, incapace a sua volta di comunicare se non abbaiando e simulando le movenze di un cane. In questo ardito gioco di specchi e di sdoppiamenti essenziale è la verve, venata di congestionate amarezze, del ritrovato Jeff Goldblum, da brividi nei suoi duetti psicotici con l'immagine e il ricordo del gerarca Klein, impersonato dal sempre magnetico Willem Dafoe.
In una manifestazione come questa, incentrata sul valore della scrittura cinematografica, importanti scoperte sono venute anche dalla serie di documentari sugli sceneggiatori italiani che ha tenuto banco nei giorni iniziali, alla presenza di autori come Franco Giraldi ed Ettore Scola; autore, quest'ultimo, insieme a Silvia Scola di uno dei ritratti più appassionanti, per l'appunto quello dedicato a Sergio Amidei. Le intemperanze e la generosità dello stesso Amidei, i diciotto gatti di Tonino Guerra, le memorie neorealiste di Suso Cecchi D'Amico, la vena eccentrica dell'indaffaratissimo Cesare Zavattini, i caratteri opposti di Age e Scarpelli, tutto ciò ed altro ancora in quei documentari di alterno valore che però, complessivamente, hanno saputo restituire un clima culturale di indescrivibile vivacità, purtroppo scomparso nel cinema italiano attuale, in cui proprio la figura dello sceneggiatore in grado di lasciare un'impronta vera, profonda, sembra ormai latitare.
Accennavamo alla disomogeneità dei materiali, ed infatti tra i lavori proposti ve ne sono stati alcuni indubbiamente modesti e limitati dalla matrice televisiva. Come si può dire, ad esempio, del documentario realizzato nel 1986 intorno a Franco Salinas per RAI - Sardegna. Ma accanto a operazioni più istituzionali, veri è propri documentari d'autore. È questo il caso della pellicola firmata nel 1968 da un cineasta raffinato come Fabio Carpi, ovvero Parliamo tanto di me, arguto omaggio a un Zavattini "pedinato" (è proprio il caso di dirlo) nella sua giornata tipo, fino a un epilogo davvero toccante per l'umanità che ne deriva. Una segnalazione a parte la merita anche il frizzante ritratto di Age e Scarpelli affrescato qualche anno fa da Paolo Virzì, con gli intermezzi umoristici di un irresistibile Roberto Benigni.
Senza dimenticare, ovviamente, i vincitori del premio, che è andato a Marco Risi e Andrea Purgatori per il film Fortapàsc, in virtù di una motivazione cui affidiamo volentieri la chiusura del nostro breve resoconto: "Fortapàsc riesce a raccontare una pagina drammatica della Storia italiana, ma insieme l'aspirazione alla normalità e alla verità che non è del solo protagonista. Romanzo di formazione ed emozionante ritratto di una giovinezza interrotta, Fortapàsc è anche un atto di denuncia delle collusioni tra la criminalità organizzata e la politica, della compiacenza della stampa, della rassegnazione del potere giudiziario. Tra i meriti della sceneggiatura vi è anche quello di esprimere una bruciante urgenza di raccontare e di onorare il coraggio della scrittura."