A scorrere tra le parole di questa recensione de Il giardino segreto non troverete troppi elogi, il film diretto da Marc Munden e disponibile su Amazon Prime Video è infatti l'ennesima riprova che il detto "è meglio il libro" non è poi tanto sbagliato. A differenza dell'omonimo classico del 1911 da cui trae linfa vitale, l'opera non colpisce al cuore. Limitandosi al ruolo di mero intrattenitore, il film è un'ombra che passa senza lasciare il segno, una tavolozza di colori incapace di dar vita a un capolavoro per gli occhi. Tutto naviga su acque calme, troppo calme; un veliero maestoso all'esterno, ma senza cuore al suo interno, pronto a essere dimenticato una volta lasciato il porto e allontanatosi dalla vista dei propri spettatori, svanendo per sempre tra la nebbia fitta della loro memoria.
IL GIARDINO SEGRETO: LA SINOSSI
Tratto dal classico della letteratura per ragazzi, il film di Marc Munden lascia gli ambienti dei primi del Novecento per spostarsi nel pieno delle guerre d'indipendenza indiana del 1947. Qui vive Mary (Dixie Egerickx) bambina un po' viziata e rimasta orfana, costretta a tornare in Inghilterra dove verrà accolta nella casa del ricco zio vedovo, Archibald (Colin Firth). Sfuggendo al controllo della governante Medlock (Julie Walters), Mary apprende che dietro un ampio e poderoso muro della villa esiste un giardino, in cui la defunta zia era solita passare il suo tempo. La gioia della scoperta lascia spazio ogni notte a un misterioso pianto solitario. Coraggiosamente, Mary riesce a scoprire che il lamento appartiene a Colin, figlio dello zio (Edan Hayhurst): i due stringeranno una difficile amicizia, che troverà nell'accesso al giardino - grazie all'aiuto del giovane tuttofare Dickon (Amir Wilson) - una nuova linfa vitale alle proprie esistenze. Un cambiamento rivoluzionario e, soprattutto, magico.
DA GIARDINO SEGRETO A PRIGIONE DI EMOZIONI
La fantasia è un cavallo che corre veloce, colorando un mondo altrimenti adombrato da paure, timori, guerre e lasciti di pregiudizi insormontabili e ingiustificabili. La fantasia è anche un inchiostro indelebile con cui scrivere e decretare il destino di esistenze altrui, sancendone la felicità, o il nefasto epilogo. Un potere di investitura quasi divina, quello dell'immaginazione, capace di affidare a ogni parola una portata costruttiva o distruttrice, elargitrice di vita, o forza corrosiva di saldi legami; un influsso quasi magico tradotto in linguaggio cinematografico da un film come Espiazione di Joe Wright da cui lo stesso Munden sembra prendere ispirazione per alcuni passaggi e idee di regia. Ma non c'è il cuore martellante di Briony, o i suoi occhi azzurri colmi di rimpianto a incrociare lo sguardo del pubblico de Il giardino segreto. La fantasia irrefrenabile che corre a briglia sciolta nel personaggio sontuosamente interpretato nel 2007 da Saoirse Ronan è qui atterrito e atterrato da una leggera punta di immaginazione, pronta a lasciare spazio a una performance nervosa e una caratterizzazione che non asseconda il processo di immedesimazione dello spettatore. A nulla possono le interpretazioni di Colin Firth (granitico e fin troppo apatico nei panni dello zio, Archibald Craven) o di Julie Walters. Quella attoriale è una galleria di performance un po' frenate e per questo non sempre capaci di coinvolgere emotivamente i propri spettatori.
Ad acuire questo senso di apparente disagio sono soprattutto le riprese serrate e ristrette sul volto della piccola protagonista, sola e incapace di percepire calore e comprensione umana attorno a sé. Un senso di solitudine tradotta dal regista in primi e primissimi piani che la schiacciano al centro dell'inquadratura, esacerbando il suo isolamento affettivo. Una soluzione apparentemente d'impatto che a lungo andare si rivela nulla più che una chimera. Se tali scelte registiche grattano le superfici dello schermo, tentando di elidere la separazione tra personaggio e spettatore, le emozioni che si nascondono dietro ogni gesto, urla, o sguardi ammaliati dalla bellezza di un nuovo mondo da scoprire, vengono trattenute da un'atmosfera rarefatta in cui nessuno osa mai, limitandosi a suggerire un'emozione o un semplice slancio vitale. Vittima degli eventi, piuttosto che fautrice di salvezze proprie e altrui, la fantasia di Mary prende per mano lo spettatore per poi lasciarlo immediatamente andare, perdendolo di vista in questa scoperta di universi altrimenti sontuosi e spettacolari. Già, perché la fantasia può essere anche un rifugio, una chiave capace di aprire mondi inesplorati e inaccessibili ai più, ma non a chi si lascia vestire di innocente bellezza. Per Lewis era un armadio su Narnia; per Frances Hodgson Burnett un giardino che tra le mani di Manden si tramuta in un labirinto immenso e dispersivo in cui perdere la propria forza creativa e attrattiva.
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IL MONTAGGIO DELLA FANTASIA
L'entrata sul giardino risponde a un modo di immaginare il mondo che ben si adatta all'universo creativo dei giovani di oggi: ricco di effetti digitali e grande, immenso, uno spazio tutto da (ri)creare e dentro cui ricercare (o mantenere vivo) il proprio fanciullino interiore. Più che un giardino, quello immaginato dalla Burnett si estende a un microcosmo a parte, un ambiente tanto grande quanto il bisogno di Mary di sentirsi libera, capita, amata. Ma le buone intenzioni non riescono a trovare delle messe in pratica autoriali e tecniche capaci di dar corpo a questo mondo, offrendo allo sguardo del proprio spettatore transizioni cromatiche di alberi e passerotti rivelanti la loro essenza fittizia e digitale. In questo micro-universo quasi rispondente alla nota massima presa in prestito da Doctor Who, "It's bigger on the inside", nulla di magico vive all'ombra dei suoi cespugli e sotto le chiome degli alberi. Nessun respiro inebriante accarezza lo spettatore, il cui istinto scopico e di curiosa esplorazione di un mondo in bilico tra reale e fantastico, viene ora disatteso da interpretazioni manierate e una regia che tenta di osare senza dar vita ai propri slanci creativi. Ogni emozione è ridotta a ideale, simulacro sempre più viscerale e meno toccante. Se il pubblico viene trascinato al centro della storia è soprattutto grazie al montaggio di Luke Dunkley. Prestigiatore del tempo e dello spazio, il montatore affida a ogni raccordo un potere magico con il quale dar vita ai passaggi spazio-temporali, facendo danzare insieme frammenti di un passato da tenere stretto a sé - per quanto doloroso - e un presente rivestito di buio, nella trepida attesa di rivedere la luce.
Analogamente al Pinocchio di Matteo Garrone, a infondere purezza e magia all'opera è soprattutto la colonna sonora di Dario Marianelli. Un commento musicale mai invadente il suo, ma sempre pronto a far capolino al momento giusto, trapiantando in corpi filmici immobili un cuore e un'anima. Un potere riempitivo dal punto di vista delle emozioni grazie al quale vengono ribaltate scene da elettrocardiogramma piatto, e che nulla, nemmeno la regia, o il colore acceso della fotografia di Lol Crawley, avrebbero potuto ravvivare.
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Conclusioni
Concludiamo questa nostra recensione de Il giardino segreto sottolineando ancora una volta quanto la componente visiva di un film dalla fattura ottimale può non sempre concretizzarsi in un'opera riuscita capace di risvegliare il fanciullino che è in noi.
Perché ci piace
- Il montaggio
- La colonna sonora di Dario Marianelli
- I raccordi tra passato e presente diegetico
Cosa non va
- Le performance degli attori (soprattutto dei più giovani)
- La resa digitale di certi elementi
- La mancanza di sentimento