Febbraio 2002: Hayao Miyazaki ottiene l'Orso d'oro a Berlino per La città incantata - Spirited Away. Settembre 2009: a Venezia il regista e produttore statunitense John Lasseter insieme ai registi della Pixar, ricevono il Leone d'oro alla carriera come protagonisti dell'innovazione del cinema d'animazione contemporaneo. Due eventi determinanti e collaterali per il mondo dell'animazione e la sua ricezione occidentale. Determinanti per suggerire il peso e la centralità definitiva che l'animazione ha ormai raggiunto, grazie alla maturità e alla molteplicità della sua proposta. Collaterali, perché al di là dell'indiscusso valore artistico di opere rispondenti a una modalità di intrattenimento classica, per bambini e adolescenti - che riunisce varie sensibilità dalla mirabile Pixar, alle fiabe oscure burtoniane, ai titoli più convenzionali e rassicuranti - si è aggiunta nel tempo un'attenzione che definiremo autoriale e che guarda senza mezze misure al pubblico adulto. Nell'ultimo decennio, memore dell'esperienza nipponica (su cui sarebbe impresa titanica soffermarsi vista la varietà e stratificazione della produzione) e trainati dai continui strappi operati dalla serialità televisiva post-Simpson, l'animazione occidentale si è progressivamente trasformata da genere a tecnica. Uno slittamento dall'importanza determinante per comprendere a pieno come il cinema di animazione oggi inglobi nelle sue sempre più immaginifiche possibilità, l'intero spettro di possibilità narrative e tematiche.
Se ne sono accorti i grandi festival che da un decennio inseriscono nelle loro selezioni film di animazione di ogni genere, se n'è accorto il pubblico, ormai consapevole che lo spettacolo dei cartoon non è più solamente il regno dei più piccoli. L'urgenza politico-sociale è stata una delle molle fondanti di quest'attenzione alla tecnica dell'animazione per esplorare nuovi territori. Se lo splendido Persepolis ha raccontato con acutezza e sensibilità l'affermarsi della rivoluzione islamica a Teheran, fino al conflitto con l'Iraq, attraverso gli occhi di una bambina arguta e ribelle, l'esperimento si è ripetuto con Valzer con Bashir, altro film che scopre l'animazione per denunciare i risultati della perdita di memoria storica di un snodo storico centrale nel conflitto arabo-israeliano conclusosi con la tragica strage di Sabra e Shatila. Opere che mettono coraggiosamente al centro temi forti, coniugando il valore morale e sociale del loro spunto a una ricerca estetica di grande respiro. Ma l'animazione politica, come è stata un po' ovunque battezzata, è solo un percorso - ovviamente molto visibile - di un fenomeno in pieno fermento e dalle grandi potenzialità per cinematografie non necessariamente dotate di tradizione, prestigio e forza produttiva. Almeno sulla carta, vista la grande attenzione che nazioni come la Francia e gli Stati Uniti stanno dando alle possibilità del cinema d'animazione, ibridandolo con i linguaggi più disparati alla ricerca di una sintesi ancora magmatica e confusa ma certamente di grande interesse. Ma se la Francia si candida senza dubbio a pura avanguardia europea - capace di produrre lo sfarzoso polar Renaissance, parallelo e tecnicamente assimilabile a Sin City, ma concettualmente indipendente, e soprattutto il lavoro di Sylvain Chomet, autore del grande Appuntamento a Belleville e del recentissimo L'illusionista - negli States, come da tradizione, il metro di misura di un fenomeno è la ricerca dello spettacolo, con risultati però da non valutare assolutamente con snobismo e superficialità. E se il dittico di Richard Linklater Waking Life-A Scanner Darkly - un oscuro scrutare, anima la recitazione tradizionale, Sin City risolve l'annoso problema dell'adattamento dal mondo dei comics (da sempre miniera infinita di storie e universi ma anche campo di forti delusioni e pressioni dei fan), riuscendo dove il 300 di Zack Snyder aveva lasciato perplessi, ovvero rinunciando a rincorrere il nuovo pubblico con un cinema plastico e un po' ingessato (almeno fino ad Avatar e al suo affascinante quanto asfissiante perfezionismo) a favore di una pura e sfrontata rievocazione dell'esaltante mondo creato da Frank Miller. Ma la natura polifonica del cinema americano, quell'inesauribile miniera di spinte centrifughe che ne garantisce la salvezza, anche in un periodo qualitativamente decadente come quello attuale, ha scoperto l'animazione liberandola dalla tendenza dilagante all'avanguardia videoartistica o al cortometraggio da festival a favore di una sensibilità più ampia. Corpus indefinibile, spettro di opere a firma di registi affermati che scelgono l'animazione come evasione, esperimento, adattamento, o come modalità per raccontare il proprio mondo da un'altra angolazione. Come in Fantastic Mr. Fox, riuscito esperimento di Wes Anderson, personalità centrale e molto caratterizzante della New wave del cinema indie americano, capace di riproporre con l'animazione il suo mondo sognante e lunare, rivitalizzato dopo il sentore di maniera de Il treno per il Darjeeling. Un film che dopo la calda accoglienza internazionale arriva dalle nostre parti come un'opera dalla difficile collocazione, ma che di certo è molto di più che un semplice divertissement di un regista talentuoso e consapevole, ma un tassello necessario all'interno di un percorso autoriale che finisce per abbracciare anche l'animazione, semplicemente perché questa è ormai una delle varie possibilità con cui il cinema può continuare a raccontare e raccontarsi.Il fantastico cammino dell'animazione d'autore
L'interazione tra cinema d'animazione e pubblico adulto è sempre più ricca e diversificata. L'uscita di Fantastic Mr. Fox a firma di Wes Anderson è l'occasione per fare il punto su un movimento sempre più interessante e strutturato. Sulla scia del modello nipponico, l'occidente sta abbandonando l'idea dell'animazione esclusivamente come genere sposandone la tecnica per diversi fini narrativi.