In un corridoio d'ospedale piantonato dalle forze dell'ordine irrompe un plotone di figure livide, con completi neri tutti identici, indossati come lugubri divise. L'incipit di Esterno notte - Parte 1, con la triade democristiana che si staglia minacciosa al capezzale di un redivivo Aldo Moro, in un campo e controcampo pervasi di silenziosa tensione, è in realtà un surreale flashforward: quell'ucronia vagheggiata da Marco Bellocchio in Buongiorno, notte, e che a distanza di quasi vent'anni si riaffaccia ad aprire un'altra, dolorosa cronistoria dell'Italia degli anni di piombo. Una cronistoria in cui al rigore dei fatti, all'iconicità delle immagini (l'edizione straordinaria di Bruno Vespa, la fotografia di Moro davanti alla bandiera delle Brigate Rosse), si sovrappongono l'incursione nel dietro le quinte e la libertà di (re)inventare, di immaginare ("L'immaginazione è reale", dichiarava in Buongiorno, notte il personaggio di Paolo Briguglia), di affidarsi agli strumenti del romanzo.
Esterno notte - Parte 1, che racchiude la prima metà del colossale progetto di Marco Bellocchio in virtù della sua destinazione cinematografica (la Parte 2 sarà invece nelle sale dal 9 giugno) prima dell'approdo televisivo su Rai1, ci riporta dunque all'alba del "compromesso storico" fra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, nell'inverno dello scontento di chi - nella DC, nella Chiesa Cattolica, nella sinistra extraparlamentare, perfino negli Stati Uniti - si adoperava per il fallimento di quella svolta inedita, e per certi aspetti senza ritorno. In un paese che, per la prima volta ad ovest della cortina di ferro, si accingeva ad accogliere i comunisti al Governo (un appoggio esterno, ma con la promessa di una futura collaborazione più solida), Bellocchio riporta così in scena il caso Moro, nodo eternamente irrisolto della Prima Repubblica, adottando i punti di vista del Segretario della DC, dell'allora Ministro dell'Interno Francesco Cossiga e di Paolo VI negli ultimi mesi del suo Pontificato.
Aldo Moro: lo stratega del compromesso
Ad emergere, perlomeno nel primo capitolo del dittico di Marco Bellocchio, è una multiforme indagine sulle diverse facce del potere: non più (o non tanto) sull'effetto di ebrezza, sempre sul punto di sconfinare in hybris, ma piuttosto sul suo peso logorante, rovesciando il celebre motto andreottiano. Nella visione di Esterno notte, il potere è una vocazione (o una condanna?) che costringe chiunque lo detenga dentro una gabbia di solitudine: è il trait d'union dei protagonisti dei primi tre episodi dell'opera di Bellocchio, l'assunto shakespeariano sviluppato secondo tre traiettorie differenti nell'arco di centosessanta minuti. A partire dall'Aldo Moro di un mimetico Fabrizio Gifuni, esattamente a un decennio di distanza dal suo primo cimento nei panni del leader della DC in Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana.
Quella di Moro è una solitudine accolta con serafica consapevolezza: ce lo dimostra mentre, sotto i vessilli dello scudo crociato, si rivolge ai propri colleghi di partito, incurante dell'ostilità delle correnti avverse, per rivendicare la necessità di superare la dicotomia di maggioranza e opposizione (gli 'innominabili' comunisti di Enrico Berlinguer); o quando, al rientro a casa, consuma una cena frugale nella penombra della cucina, appena rischiarata dal bagliore dei lampi notturni di una Roma che pare alle soglie dell'apocalisse. L'ambiente domestico, spazio alternativo alle stanze di Palazzo Chigi e agli uffici di Piazza del Gesù, è il suo porto sicuro: il luogo in cui Moro può deporre, almeno per qualche ora, i panni dello stratega e dello statista, per riprendere quelli più rasserenanti del marito, del padre e del nonno.
Esterno notte, la recensione: tutta la Passione di Aldo Moro
Francesco Cossiga: ossessioni color rosso sangue
Mentre l'Aldo Moro del 1978 è il "padre nobile" della DC, armato di benevola pazienza nei confronti di quei 'figliastri' che si affannano per una poltrona da sottosegretario ("E ora chi lo dirà a mia madre?" è l'impietosa battuta messa in bocca a un democristiano immolato sull'altare del compromesso con il PCI), Francesco Cossiga è il discepolo e il delfino costretto ad assumersi la responsabilità di trarlo in salvo. Dopo l'agguato di via Fani, è il "Ministro di ferro" a fungere da personaggio-focalizzatore della parte centrale del racconto, attraverso l'interpretazione perennemente irrequieta, ai limiti della nevrosi, di Fausto Russo Alesi, che per Bellocchio aveva già prestato il volto al giudice Giovanni Falcone ne Il traditore, altro capolavoro sugli ultimi tre lustri di storia italiana della Prima Repubblica.
Se per il Moro di Bellocchio e Gifuni il potere è un'abitudine ormai consolidata, esercitata con sagace discrezione (gli incontri clandestini con Berlinguer, corredati da riflessioni ironiche su un paese che è già molto più avanti rispetto alla sua classe politica) e con un'autorevolezza che non gli richiede mai di alzare la voce, sugli uomini intorno a lui esso grava come un macigno. Giulio Andreotti (Fabrizio Contri), melliflua eminenza grigia, vorrebbe esibire la sua stessa solidità, ma all'apice della crisi verrà travolto dal proprio vomito; per Cossiga, invece, la determinazione nel voler ritrovare Moro si tramuta in un'ossessione divorante, che Bellocchio ci dipinge in un episodio da annoverare fra le pagine più alte della sua filmografia. Abbandonata la granitica lucidità di Moro, il secondo segmento di Esterno notte ci immerge nella visionarietà paranoica di Cossiga, che si sente inchiodato dallo sguardo di Moro nella foto dei brigatisti e tenta di sfregarsi via dalle mani delle invisibili macchie di sangue, come una novella Lady Macbeth.
Buongiorno, notte: Marco Bellocchio e la "prima volta" sul caso Moro
Paolo VI: la longa manus del Vaticano
Un altro elemento distingue Aldo Moro dai due comprimari di Esterno notte: la sua incessante mobilità. Per un'ora Moro entra ed esce da palazzi, chiese, aule universitarie, abitazioni, addirittura automobili (quella del meeting con Berlinguer e dell'agguato del 16 marzo, i veicoli delle Brigate Rosse), incontrando persone, stringendo mani, scambiando un segno di pace con una brigatista. Al contrario di lui, gli altri preferiscono rinchiudersi nelle rispettive roccaforti, lasciando che siano i loro sottoposti a muoversi e ad agire. Francesco Cossiga si divide affannosamente tra il suo ufficio al Viminale e la centrale di raccolta delle intercettazioni, in cui convergono i sospetti, le angosce e i deliri di un paese nel pieno del trauma; e Papa Paolo VI, incarnato dalla dolente teatralità di Toni Servillo, è prigioniero di una stasi che è innanzitutto fisica, ma che suggerisce l'inerzia di un'istituzione millenaria ormai incapace di cogliere lo spirito del tempo.
Paolo VI, dilaniato dalla sofferenza per il sequestro di Moro, è il vertice di un potere 'altro' rispetto allo Stato italiano: un potere in grado di intavolare una trattativa con le Brigate Rosse, di attivare i propri agenti (il monsignor Cesare Curioni di Paolo Pierobon) come pedine di un thriller spionistico, o di esibire una montagna di banconote di fronte alla signora Eleonora Moro (Margherita Buy) a dispetto della "linea della fermezza" invocata dai membri della DC. Eppure, quel potere arriverà a consumare il Santo Padre in senso spaventosamente letterale: il ventre devastato dal cilicio, fra lenzuola bagnate di sangue, è una delle immagini più tenebrose e atroci di un film che, nel trapasso dalla realtà all'incubo, trasforma Moro nell'agnello sacrificale di un'allucinata Via Crucis, sotto gli occhi impassibili di una classe dirigente che forse ne ha già decretato la sorte.