Questa città è marcia, fino all'osso. Non mi mancherebbe se domani sprofondasse nella gola: non ci vedo nessun fascino. Ma lei pare di sì. Lo ammetta, si è innamorata di Dogville: degli alberi, le montagne, la gente semplice...
L'idillio bucolico della provincia degli Stati Uniti: uno scenario che funge da perfetta cornice ai valori tradizionali della società americana. Si tratta di un tópos ricorrente nell'ambito della celebrazione dell'American way of life, ma anche nell'ottica del suo rovesciamento dissacrante: un rovesciamento che, dalla Hollywood classica (I peccatori di Peyton di Mark Robson, 1957), passa attraverso Velluto blu di David Lynch (1986) per approdare alla quieta disperazione dell'America suburbana raccontata più volte nel cinema degli ultimi trent'anni. L'ambientazione rurale di un fittizio villaggio del Colorado diventa però il microcosmo in grado di farsi sineddoche di un'intera nazione in Dogville: il film con cui, nel 2003, Lars von Trier tornava a fare i conti con le contraddizioni e le storture della "terra delle opportunità".
La "terra delle opportunità" secondo Lars von Trier

Riproposto nelle sale italiane da Movies Inspired a ventidue anni dalla sua presentazione in concorso al Festival di Cannes 2003, Dogville costituisce infatti il primo capitolo di un'ideale trilogia - mai portata a compimento - intitolata emblematicamente USA: Land of Opportunities e proseguita nel 2005 con il meno fortunato Manderlay. L'interesse del regista danese nei confronti dell'America, descritta nella dicotomia fra le "nuove opportunità" e le feroci dinamiche insite nella sua struttura sociale, risale già al precedente Dancer in the Dark, ricompensato con la Palma d'Oro a Cannes nel 2000: la storia di un'immigrata della Cecoslovacchia trapiantata nel Pacific Northwest, dove lavora come operaia e intraprende un drammatico calvario legato alla necessità di raccogliere il denaro sufficiente per garantire un futuro al figlio dodicenne.

Se in Dancer in the Dark la debolezza della Selma Ježková di Björk è riconducibile alla sua duplice condizione di sottoproletaria e di straniera, condannata a restare vittima di uno spietato ingranaggio economico e giudiziario, anche la trama di Dogville si sviluppa a partire da un "corpo esterno" al villaggio del titolo: si tratta di Grace Mulligan, una giovane donna misteriosa che si rifugia in una miniera abbandonata nel tentativo di nascondersi ai gangster che le stanno dando la caccia. Grace, a cui presta soccorso l'aspirante intellettuale Tom Edison Jr (Paul Bettany), ha il volto diafano e la delicata bellezza di Nicole Kidman, qui alle prese con una delle scommesse più audaci della sua filmografia: la diva australiana decide di collaborare con von Trier nel momento di massimo fulgore della propria carriera, subito dopo successi quali Moulin Rouge! e The Others e quasi in contemporanea con l'Oscar come miglior attrice per The Hours.
Un dramma brechtiano sul doppio volto dell'America

Dunque, dopo altre due grandi protagoniste femminili affidate alle straordinarie performance di due attrici esordienti (Emily Watson ne Le onde del destino e Björk in Dancer in the Dark), qui per la prima volta Lars von Trier può contare su una superstar di Hollywood, circondata da una pletora di volti noti e notissimi della scena internazionale - da James Caan a Ben Gazzara, da Chloë Sevigny ad Harriet Andersson, passando per la leggendaria Lauren Bacall - per un progetto che non potrebbe essere più lontano dai canoni del cinema americano. Del resto, la sua rielaborazione delle regole del linguaggio filmico lo aveva già visto cimentarsi con il genere hollywoodiano per antonomasia, il musical, ricollocato in Dancer in the Dark nel contesto della working class e riadattato in funzione di una materia narrativa inesorabilmente tragica.

In Dogville, messa da parte l'esperienza di Dogma 95, Lars von Trier adotta invece l'essenzialità minimalista del cosiddetto black box theatre: l'intera storia è riprodotta nella fitta penombra di un palcoscenico quasi del tutto privo di arredi, con dei semplici segni di gesso a indicare le pareti delle stanze e degli edifici. In questa scelta così radicale risiede una prima istanza del film: la rinuncia a una partecipazione emotiva basata sulla mimesi dei luoghi e sul realismo degli ambienti. L'intento di von Trier è piuttosto uno straniamento di matrice quasi brechtiana, veicolo per una riflessione più distaccata e 'letteraria' (l'onnipresente voce narrante, affidata nella versione originale a John Hurt) sui temi chiave del film: il doppio volto di un'America che, dietro una ridente atmosfera pastorale corredata di cespugli rigonfi di bacche e profumo di cannella, cela uno spregiudicato senso di opportunismo.
C'è del marcio a Dogville

È il monito pronunciato in tempi non sospetti dal rude Chuck di Stellan Skarsgård, che insieme a sua moglie Vera (Patricia Clarkson) ingaggia Grace come baby sitter, ma al contempo la mette in guardia dal fascino ingannevole di quella cittadina "marcia fino all'osso"; e paradossalmente sarà proprio lui a usarle la maggiore violenza, nel momento in cui, come recita il titolo del sesto capitolo del film, "Dogville mostra i denti" alla protagonista. L'accoglienza degli abitanti verso Grace, esito di una pubblica votazione, è davvero frutto dello spirito di solidarietà o cela un secondo fine? Per lei, donna umile e bendisposta, ma così diversa dai membri di questa comunità circoscritta, esiste la speranza di una reale integrazione? La risposta di Lars von Trier sembra animata dallo stesso, lucido pessimismo alla radice di Dancer in the Dark.

A prendere il sopravvento, alla prima occasione utile, sarà un bestiale istinto di sopraffazione, connaturato forse all'essere umano, o magari endemico di una società fondata su logiche capitalistiche. Il primo indizio in tal senso risiede, non a caso, nello sfruttamento professionale a cui è sottoposto il personaggio di Nicole Kidman, costretto - a dispetto della propria innocenza - ad aumentare l'orario di lavoro, in un capitolo intitolato con sarcasmo Il 4 di luglio dopotutto. Per Grace, è il primo passo di una progressiva Via Crucis di meschinità e abiezione; perlomeno fin quando l'alone salvifico evocato dal suo nome non si tradurrà nello strumento di un verdetto implacabile, come osserva serafico il narratore subito prima dell'epilogo: "Se qualcuno aveva il potere di rimettere a posto le cose, era suo dovere farlo: per il bene delle altre città, per il bene dell'umanità, e non ultimo per il bene dell'essere umano, che era Grace stessa".