"Ogni volta che esce un suo nuovo film, sembra che tutto quello che è venuto prima sia stato una preparazione per esso." Così scriveva, nel 1981, recensendo Blow Out, la celebre critica Pauline Kael, simbolo di un'epoca in cui le recensioni cinematografiche, almeno in America, avevano ancora una certa importanza (fu il suo parere entusiasta su Gangster Story a decretarne, in parte, il successo commerciale). La signora Kael era tra i più grandi sostenitori di Brian De Palma, regista americano instancabile nonostante l'età (classe 1940) e attivo da più di mezzo secolo (i primi cortometraggi, realizzati durante gli studi universitari, risalgono al 1960), e molti dei dibattiti sull'opera dell'autore di Omicidio a luci rosse e Vestito per uccidere scaturirono proprio, stando al diretto interessato, dai pareri della prestigiosa firma del New Yorker. Oggi lei non c'è più, e anche il furore provocato da pellicole come Scarface è ormai un ricordo distante, tant'è che nessuno si è scandalizzato più di tanto alla notizia che De Palma, frequentatore abituale della Mostra di Venezia dal 1975, sarebbe stato premiato, nel corso della settantaduesima edizione, con il premio Glory to the Filmmaker.
In tale occasione è stato mostrato al pubblico il documentario De Palma, diretto a quattro mani dai registi Noah Baumbach (Lo stravagante mondo di Greenberg, Frances Ha) e Jake Paltrow (fratello minore di Gwyneth Paltrow). Raccontandosi a loro, sulla falsariga delle conversazioni fra Alfred Hitchcock e François Truffaut (anche se in realtà Baumbach e Paltrow non intervengono sullo schermo, neanche come voci fuori campo), il regista de Gli intoccabili ripercorre tutta la sua carriera in ordine cronologico, dai primi passi dal sapore avanguardista nel periodo in cui frequentava la Columbia University fino alla recente uscita di Passion, presentato in concorso a Venezia nel 2012 e poi passato inosservato nei circuiti più commerciali. Senza dimenticare l'amore dichiarato per Hitchcock (il documentario si apre con il ricordo della prima visione de La donna che visse due volte), le amicizie nate durante l'era della New Hollywood (Martin Scorsese, Steven Spielberg, George Lucas, Francis Ford Coppola), le lotte contro la censura, i matrimoni falliti. Tutti gli alti e bassi di un percorso artistico talvolta altalenante ma sempre ricco di spunti e meritevole di ripetute visioni.
La forza dell'aneddoto
Il principale punto di forza del film è proprio la presenza di De Palma, il quale, oltre ad essere un grande regista, è un buon raconteur con tanti ricordi da condividere, senza censure. Partendo dagli elementi autobiografici del suo cinema (il poco visto Home Movies, uscito nel 1980, è basato sia sulla sua infanzia che sulle prime esperienze con film a budget ridotto), passando per le motivazioni che lo indussero ad accettare certi incarichi (ammette candidamente di aver girato Mission: Impossible perché gli serviva un successo commerciale), fino ad eventuali dissapori con sceneggiatori o attori, c'è almeno un dettaglio interessante per ogni tassello della sua ricca filmografia. Basti pensare a Sean Penn che, sul set di Vittime di guerra, fece arrabbiare Michael J. Fox - per esigenze di copione, sia ben chiaro - sussurrandogli "Sei un attore televisivo" (all'epoca ancora un insulto pesante), o ad Oliver Stone che fu allontanato dal set di Scarface perché ad un certo punto cominciò a cercare di imporre la propria visione, incompatibile con quella di De Palma. E ancora: la decisione di abbandonare Hollywood dopo Mission to Mars (tutti i film successivi sono stati girati fuori dagli Stati Uniti, senza il contributo degli studios maggiori), le opinioni negative sui vari rifacimenti di Carrie - Lo sguardo di Satana o sul modo in cui vengono realizzate oggi le scene d'azione, o le idee scartate per alcune opere (ci viene mostrato il finale originale di Omicidio in diretta, che il regista considera superiore alla versione vista in sala), quest'ultimo un elemento che porta De Palma, non del tutto a torto, a ritenere che i suoi film siano anche la testimonianza degli errori e dei compromessi che hanno segnato gran parte della sua carriera.
Work in progress?
Eppure c'è qualcosa che manca in questo omaggio sincero ad uno degli autori più importanti del cinema americano. Si ha quasi l'impressione di assistere alla visione di un montaggio preliminare, una prima stesura di quello che potrebbe e dovrebbe essere un lavoro più ampio ed approfondito. Viene il sospetto che il documentario, così come l'abbiamo visto a Venezia, sia stato completato un po' in fretta e furia per essere pronto in occasione della consegna del premio a De Palma, come si può evincere anche solo dall'assenza dei titoli di coda e di qualsiasi menzione dei due registi, attualmente anonimi al di fuori delle schede ufficiali su IMDb e nei materiali della Mostra (catalogo e sito). Più di una volta, De Palma allude a brandelli di conversazione che non sono stati inclusi nel montaggio "finale", accrescendo la sensazione che una versione più lunga sia - e lo speriamo sinceramente - dietro l'angolo.
Nella sua forma attuale, De Palma è un ritratto divertente, interessante, ma anche elementare e schematico, impreziosito soprattutto dall'inclusione di materiali rari e poco visti come i primi corti del regista o uno spassoso home movie di Spielberg. Sarebbe quindi auspicabile almeno un'ora in più (110 sono troppo pochi per un nome del calibro di De Palma), e non avrebbe guastato, nonostante la lucidità del diretto interessato che domina la pellicola con carisma ed intelligenza, qualche commento da parte di collaboratori di vecchia data come Pino Donaggio, Nancy Allen o John Lithgow.
To be continued?
Movieplayer.it
3.5/5