Quando la sera del 20 luglio 2012 James Eagan Holmes entrò con regolare biglietto nella sala 9 del Century 16 di Aurora, in Colorado, per assistere come tutti gli altri fan della saga alla prima del film Il cavaliere oscuro - Il ritorno di Christopher Nolan, nessuno poteva immaginare quello che sarebbe successo mezz'ora dopo: un massacro che si concluse con un bilancio di dodici persone uccise e settanta feriti. A sparare sulla folla di spettatori inermi lo stesso Holmes, vestito con abbigliamento militare e maschera antigas, e con tanto di musica techno sparata nelle orecchie dalle cuffie che indossava per non sentire le urla delle quattrocento persone presenti in sala. L'ennesima strage sul suolo americano, questa volta non in un liceo come era successo alla Columbine High School nel 1999 o alla Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland in Florida lo scorso 14 febbraio, ma in un cinema.
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E al cinema questa storia torna, con un'opera intimista e coraggiosa che fa dell'astrattezza la propria cifra stilistica: si chiama Dark Night, titolo che da un lato evoca sinistramente la notte oscura che inesorabile piomberà addosso ai protagonisti, e che dall'altro richiama per assonanza il film (The Dark Knight Rises, il titolo nella versione originale) che quegli stessi personaggi si preparano a vedere sul grande schermo in un anonimo multiplex di provincia. A dirigerlo (nel giro di appena sedici giorni) è Tim Sutton, regista indipendente che guarda al minimalismo di Gus Van Sant, autore che in questo film di poco più di un'ora (presentato nel 2016 prima al Sundance Film Festival, poi alla Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia) non perderà occasione di essere citato e omaggiato.
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Adolescenze 'annoiate'
Dark Night si ispira al massacro di Aurora, ma evita accuratamente di mostrarcelo, non si sofferma sui particolari macabri di quella notte, né sulla sparatoria: il racconto di Sutton parte da molto prima e indugia sulla 'noia' quotidiana di sei giovani individui, compreso il killer, nelle ore precedenti l'attentato.
Alla narrazione cronachistica e lineare il regista preferisce un ritratto frammentato e dalle atmosfere rarefatte, in una continua destrutturazione dello spazio e del tempo scomponendo e ricomponendo dettagli, volti e azioni come in un puzzle, un collage dove lo spettatore è chiamato a partecipare attivamente.
Ognuno dei personaggi annaspa e galleggia nello spazio ovattato delle inquadrature costruite con rigore geometrico e compostezza e dalle quali le figure che si affollano sullo schermo entrano ed escono in continuazione: uno skater dai capelli arancioni, un'aspirante attrice ossessionata dal selfie perfetto, due amiche che lavorano in un grande magazzino, un reduce di guerra, un ragazzo, Aaron Purvis, protagonista di un'intervista insieme alla madre e un giovane inquieto dai glaciali occhi azzurri. Ciascuno di loro, si scoprirà poi, porta con sé un aspetto del killer arrestato quella stessa notte e condannato a dodici ergastoli, uno per ogni vittima.
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La provincia americana e l'omaggio a Gus Van Sant
Dopo un'apertura sulla scena che chiuderà il film, Sutton segue con stile quasi documentaristico gesti e spostamenti di questa comunità divorata dal vuoto, affogata nella banalità, fagocitata da un latente e diffuso malessere, popolata da videogame, cellulari, web e armi. Gli adolescenti di Dark Night sono distanti, alienati e silenziosi, a dominare è la quasi totale assenza di dialoghi, il rumore delle tavole da skate e la musica di Maica Armata; l'assassino potrebbe essere chiunque, il regista ne svelerà l'identità lentamente attraverso una serie di particolari disseminati qua e là per tutto il film e che insieme contribuiscono a costruire un senso di inquietudine crescente.
Inevitabile pensare alle atmosfere di Elephant dove Gus Van Sant ricostruiva i momenti che precedevano la strage di Columbine; il film di Sutton lo cita spudoratamente, ma è ben lontano dal capolavoro del regista di Paranoid Park e Last Days.
Gli mancano il ritmo, l'organicità e la compattezza, oltre a risultare in alcuni momenti criptico e prigioniero della sua stessa frammentarietà; il rischio è che lo spettatore si smarrisca in un eccessivo esercizio di stile.
Imperfezioni tutto sommato perdonabili alla luce di una regia che osa e alza di continuo l'asticella della sperimentazione.
Movieplayer.it
3.0/5