L'uomo senza sonno inizia con il suo finale. Ma, soprattutto, L'uomo senza sonno comincia dove si conclude Session 9, insieme ai suoi incastri ed ai suoi rimandi infiniti. Infatti, Trevor Reznik (un Christian Bale dalla corporeità estrema, malata e decisamente lontana da quella pur straordinaria dello Spider di Ralph Fiennes) non è altro che una creatura partorita dallo sguardo allucinato, impaurito ed incredulo di Gordon. Le foto del finale di Session 9 sono state sostituite da una presenza lynchiana (Ivan, ovvero l'"incarnazione" di Simon) e dalla tangibilità del rimorso (la cameriera del bar e il figlio di lei). Il nastro magnetico con le sedute di Mary Hobbes è catturato dai post-it che variano continuamente il gioco dell'impiccato. I lunghi corridoi del Danvers Lunatic Asylum sono convogliati in una metropoli industriale, se vogliamo, ancora più chiusa e claustrofobica. Gordon in Session 9 invocava, da una stanza di manicomio, il suo ritorno a casa. Trevor, da una cella di prigione, chiede invece solo di poter dormire. In entrambi i protagonisti, troviamo la necessità di una quotidianità negata non si sa da chi e non si sa perché. In loro vi è lo stesso smarrimento e la stessa disagevole solitudine che non ha origini ben definite. Gordon e Trevor sono due topi in trappola, due vittime che conoscono bene la loro condizione pur non avendo coscienza della punizione che, in realtà, stanno già scontando.
Brad Anderson, da par suo, non cade nel facile espediente d'irretire lo spettatore con scelte calcolate e in linea con le appurate tendenze del genere. E' vero che la produzione di Julio Fernández della Filmax (quella di Darkness per intenderci) e la sceneggiatura di Scott Kosar, potevano far inciampare il regista americano in tentativi meno ricercati e più appetibili per un pubblico meno esigente. Anderson, invece, supera l'ostacolo osando molto, con un finale che solo in apparenza può sembrare scontato, anche se sacrifica la temerarietà implicita nelle sue immense possibilità. Il modo in cui è fronteggiato il rapporto fra Trevor e la cameriera (la brava Aitana Sánchez-Gijón di Io non ho paura, che qui riscopre una dimensione più dolce e accomodante rispetto alla veste conturbante e terrigna del film di Gabriele Salvatores) evita accuratamente la ridondanza. L'orologio a muro che rimane "inceppato" ad un'ora che si presume in qualche modo fatale, segna il passo dello spettatore, messo costantemente dinanzi al solito bivio insieme al protagonista. La scelta dell'uno o dell'altro potrebbe, in ogni modo, risultare irrilevante, perché Brad Anderson ha come obiettivo ultimo quello di non far disperdere la tensione. Una tensione costruita come un sottilissimo reticolo intorno ad una miriade di tranelli figurativi (le fauci della route 666 che "addentano" Trevor ed il bimbo privo di sensi, ma anche gli specchi e i vetri che, con i loro riflessi, frantumano o alterano continuamente le fisionomie dei personaggi) e narrativi (le sei cangianti lettere che compongono l'enigma dell'impiccato). Tutto ciò è palese soprattutto nella sequenza del tunnel dell'orrore, che non può che essere frutto di un'immaginazione paranoica. Eppure tutto sembra capitare veramente al protagonista, nonostante la fotografia di Xavi Giménez, plumbea e dai toni bluastri (come in The Gift di Sam Raimi) faccia pensare esattamente il contrario. La vera dimensione dell'irrealtà del film è piuttosto in quella cella dove il nostro Trevor, sbarazzatosi per sempre di Ivan, potrà finalmente cancellare le sue colpe e trovare un riconciliante sonno (eterno) della coscienza.