Recensione A.C.A.B. (2012)

Stefano Sollima da il via alla sua avventura sul grande schermo, imponendo ad ACAB - All cops are Bastards uno stile che trova forza e vigore nel coraggio di raccontare una storia finalmente necessaria.

Bastardi e senza gloria

Un celerino da solo non vale niente. Forza e riconoscibilità gli viene dal gruppo, un clan privato che con lui condivide rabbia, sconfitte, violenza e, a volte, pentimenti sopiti. Questa è la lezione che Cobra impartisce ad Adriano, giovane recluta capitato nel reparto mobile più per necessità economica che per "vocazione". Un insegnamento appreso e abbracciato prima di lui da Mazinga, l'anziano del gruppo, e da Negro, esasperato da una realtà famigliare arrivata alla resa dei conti. Una vera e propria "filosofia" di vita che, forte dell'orgoglio di una divisa segnata dagli scontri urbani, getta le basi per un personale modello di Stato in cui il principio dell'odio, in un giro cieco di dare e ricevere, si rigenera fino a cancellare ogni traccia di umanità. Così, uniti sotto l'onta degli avvenimenti del G8 e forgiati dalla consuetudine della strada, Mazinga, Cobra e Negro sono i protagonisti inconsapevoli di una storia tragica che in loro riconosce vittime e aguzzini di un sistema in cui background, livello culturale e appartenenza politica costituiscono le basi di una fratellanza votata alla solitudine.


Un inseguimento nella notte terminato con l'aggressione a un uomo ammanettato e il giro di basso introduttivo di Seven Nation Army dei White Stripes; così Stefano Sollima da il via alla sua avventura sul grande schermo, imponendo uno stile che trova vigore nel desiderio e nel coraggio di raccontare una storia finalmente necessaria. Dopo anni di assuefazione a una cinematografia nostrana fin troppo rassicurante e votata a una sorta di soporifera rassicurazione, A.C.A.B. (All cops are bastards)giunge, con l'impatto di un'aggressione improvvisa, a risvegliare la percezione di chi il cinema lo fa e lo guarda. "Orfano" dell'immancabile voce fuori campo e degli schemi rigidi su cui riprodurre sempre gli stessi accordi narrativi, Sollima fa dono al pubblico di un'opera capace non solo di muoversi trasversalmente tra realtà personali e universali, ma, soprattutto, di farsi portavoce di una sfida emotiva e intellettuale che non intende offrire zone di ristoro. In questo modo il film s'insinua nell'intimità di una realtà celata, osserva e registra le variazioni di luminosità e oscurità all'interno della quali si muovono i personaggi di una messinscena dal sapore neorealista, dove la riconoscibilità ha costantemente il sopravvento sulla finzione cinematografica. Una realtà che, lontana dal voler configurarsi come verità assoluta, trae spunto dalle pagine del romanzo omonimo del giornalista Carlo Bonini ma che, in parte allontanandosi da questo, non concede alcuna amnistia ai suoi personaggi.

Abituato a confrontarsi con lo show Romanzo Criminale - La serie, trasformato ormai in mitologia televisiva, in questo caso Sollima si fa carico di un'umanità rintracciabile tanto ambigua quanto fisicamente tangibile che, per scelta e dovere, si colloca lungo il confine di una legalità indefinita. E' per questo motivo che ai suoi uomini, sconfitti dal peso di una divisa simbolo di annullamento personale e unica fonte di riconoscibilità, il regista non lascia la consolazione nemmeno di un fascino perverso ma, con un'incredibile lucidità estetica e narrativa, li denuda di qualsiasi appeal lasciandoli esposti a uno sguardo privo di giudizio morale ma pur sempre consapevole. Una visione asciutta ed essenziale che lascia a Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro, Marco Giallini e Domenico Diele il compito di definire l'architettura di un credo e di un'appartenenza che, nonostante le logiche politiche chiaramente riconoscibili nell'iconografia gladiatoria, nel pensiero estremista e nelle scelte musicali dei Chemical Brothers, immerge le sue fondamenta soprattutto nella solitudine e nell'umiliazione di un clan consacrato alla manifestazione di una violenza dalla natura animalesca. Così, al centro di una drammaturgia di cui sono allo stesso tempo fautori e spettatori, gli uomini perdono la propria identità per vestire l'elmo e il ghigno del combattente celerino, assediato e incitato dall'irriconoscenza sociale. Figli rinnegati di un'opinione pubblica che non ne riconosce l'esistenza, di uno schieramento ideologico che ne nega l'appartenenza e di un'élite intellettuale che isola opportunamente la problematica, i poliziotti bastardi diventano l'emblema di un malessere più ampio che, ben lontano dall'essere circoscritto a una sola classe sociale, impone allo spettatore di guardare dritto negli occhi a un mondo che tutti coinvolge in una follia collettiva.

Movieplayer.it

4.0/5