Un divo della celluloide, Baird Whitlock (George Clooney), protagonista di un magniloquente e costosissimo kolossal storico/religioso, Ave, Cesare!, scomparso misteriosamente dal set. Una casa di produzione, la fittizia Capitol Pictures, terrorizzata all'idea della voragine finanziaria che potrebbe provocare l'interruzione delle riprese. E un uomo, Eddie Mannix (Josh Brolin), produttore esecutivo ma soprattutto fixer tuttofare, pronto a sopperire anche a questa crisi... e nel più breve tempo possibile.
Si può riassumere in queste poche righe lo spunto narrativo di Ave, Cesare!, il nuovo film firmato e diretto da Ethan e Joel Coen, di nuovo sul terreno della commedia tout court, con sconfinamenti nella parodia vera e propria, a quasi otto anni di distanza dal riuscitissimo Burn After Reading - A prova di spia del 2008 (mentre già il successivo A Serious Man si muoveva verso un altro tipo di comicità). Ma, appunto, si tratta soltanto di uno spunto: un semplice canovaccio su cui i due fratelli registi imbastiscono una gustosissima pellicola corale, capace di abbracciare al suo interno una pluralità di personaggi, di elementi e di storyline con una fluidità e una disinvoltura da applauso.
Hollywood mon amour
E venticinque anni dopo Barton Fink - È successo a Hollywood, opera grottesca ricompensata con la Palma d'Oro e con una pioggia di riconoscimenti al Festival di Cannes 1991, l'obiettivo dei fratelli Coen torna a prendere come bersaglio Hollywood: la Hollywood classica, quella della cosiddetta Golden Age, nel 1951, ovvero dieci anni dopo - giusti giusti - rispetto all'ambientazione di Barton Fink, e con al cuore del racconto la stessa, fittizia casa di produzione, la Capitol Pictures, altro importante trait d'union fra i due titoli. Una Hollywood che tuttavia, nella dissacrante rilettura dei Coen, è ridotta ad una fabbrica di sogni preconfezionati su misura, come in una qualunque catena di montaggio, mentre la cosiddetta "magia del cinema" ha la stessa, fatidica illusorietà del riflesso della luna inseguito da un ubriaco nel western in forma di musical Lazy Ol' Moon (uno dei vari "film nel film" di Ave, Cesare!).
Quel che ne risulta è appunto una riflessione sul rapporto fra l'arte e l'industria, in cui levità e sarcasmo si compenetrano con formidabile efficacia, dando vita a una black comedy estremamente godibile, e in cui almeno due o tre scene meritano di entrare a pieno diritto nell'antologia dei fratelli Coen. Pertanto, di seguito vogliamo proporvi una sorta di vademecum alla visione di Ave, Cesare!, analizzando il film dei Coen a partire dagli archetipi e dalle convenzioni della Hollywood degli anni Cinquanta utilizzati all'interno del film: una Hollywood in apparenza lontanissima da quella odierna, ma che in realtà cela numerose analogie con il cinema del presente...
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Professione fixer
È la figura centrale di Ave, Cesare!: l'uomo incaricato di riportare l'ordine nel microcosmo impazzito della pellicola, con tutti i mezzi a sua disposizione e con un pragmatismo che non cede di un solo millimetro, neppure nelle situazioni di massima emergenza. Padre di famiglia integerrimo, fervidamente religioso e con un debole per la nicotina, l'Eddie Mannix impersonato da un perfetto Josh Brolin è un fixer, ovvero un "aggiustatore": la persona giusta al momento giusto, l'unico in grado di schivare le "patate bollenti" della Capitol Pictures, preservando l'armonia - e le finanze - della casa di produzione di cui fa parte. Un personaggio, Mannix (ispirato fra l'altro a un 'vero' Eddie Mannix, noto fixer hollywoodiano), che sintetizza come meglio non si potrebbe la mentalità dello studio system, volta ad imporre un controllo rigoroso su registi, tecnici, divi e giornalisti. Perché Hollywood sarà pure una fabbrica di sogni, ma è innanzitutto una fabbrica, e i suoi ingranaggi devono continuare a girare sempre e comunque... perfino se questo significa prendere a schiaffi l'attore più celebre dello studio! Una nota di merito, infine, per un Josh Brolin (già protagonista per i Coen del pluripremiato Non è un paese per vecchi) sempre più bravo, e capace di giostrarsi superbamente con il registro della commedia, come già dimostrato appena un anno fa con il suo ruolo in Vizio di forma di Paul Thomas Anderson.
Tra storia e fede: i peplum religiosi
È un filone, quello dei kolossal ambientati all'epoca dell'Antica Roma, che ha conosciuto un'enorme fortuna già a partire dagli anni Trenta e fino all'inizio degli anni Sessanta, almeno fino a quando Cleopatra, nel 1963, non ha portato la MGM sull'orlo del collasso finanziario. Benché con peplum si indichino più precisamente i numerosi B-movie coevi di produzione italiana, il kolossal storico-religioso, genere oggi ormai anacronistico e pressoché defunto (con poche e dispensabili eccezioni, vedasi il deludente Gods and Kings), godeva di una gigantesca popolarità presso il pubblico dell'epoca: basti pensare che, fra i maggiori campioni d'incassi degli anni Cinquanta, vi furono titoli come Quo Vadis?, La tunica, I dieci comandamenti e Ben Hur di William Wyler, in cui l'eroe di Charlton Heston ha addirittura un fugace incontro con Gesù Cristo. Un incontro rivisitato con ironia anche dall'ufficiale delle centurie romane impersonato da Baird Whitlock, ovvero George Clooney, nel fittizio Ave, Cesare! in produzione presso la Capitol Pictures. Inutile sottolineare come i Coen sfruttino il carattere inevitabilmente datato dei peplum in salsa biblica per dar vita a gag irresistibili: una su tutte, l'epifania dell'ufficiale romano al cospetto della crocifissione di Gesù, una scena madre carica di pathos in cui però la performance di Whitlock si incepperà rovinosamente.
I singing cowboy
È un altro filone cristallizzato nel cinema del passato e ormai considerato "materiale da museo": il western dei cosiddetti singing cowboy, sottogenere capace di unire le selvagge ambientazioni del Far West con la grazia e il romanticismo del musical. E uno dei personaggi principali di Ave, Cesare! è proprio Hobie Doyle, giovane star del western, che ha i lineamenti delicati dell'attore Alden Ehrenreich. Doyle, che si produce in improbabili acrobazie a cavallo e, oltre a sguainare la pistola, all'occorrenza si arma anche di chitarra per intornare dolci ballate alla luce della luna, è una figura ricalcata su vari attori che tra gli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta riscossero una fugace popolarità grazie a tale filone, come Tim Holt, Kirby Grant, Ken Maynard, Lash LaRue e Ricky Nelson. Ovviamente, i Coen non mancano di ricalcare l'esasperata artificiosità di questo tipo di film, lontano anni luce dall'immaginario del pubblico odierno.
"Vorrei che fosse così semplice": il melodramma
Ed è sempre l'Hobie Doyle di Alden Ehrenreich ad essere ingaggiato dalla Capitol Pictures come protagonista di una nuova pellicola in lavorazione, ma di genere completamente diverso rispetto ai western in salsa musicale: un sofisticato film sentimentale ambientato nei salotti dell'altissima borghesia e diretto da uno stimato regista britannico, Laurence Laurentz (Ralph Fiennes). Un'opera in cui le passioni dei personaggi sono veicolate attraverso le più sottili sfumature: l'espressione dello sguardo, la gestualità quotidiana, l'intonazione della voce. Tutti strumenti che il povero Hobie, avvezzo ai cavalli, ai lazo e alle pistole, non è assolutamente in grado di adoperare. E una delle scene più divertenti di Ave, Cesare! ci mostra per l'appunto il compassato Laurentz, con il savoir-faire di un sopraffino Ralph Fiennes, tentare con tutti i mezzi di trarre una performance convincente dall'imbambolato Hobie, incapace perfino di pronunciare a dovere la battuta "Would that it were so simple". I Coen giocano dunque con un altro genere, il melodramma, altamente rappresentativo degli anni Cinquanta e basato su una serie di rigide convenzioni, adombrando nella figura di Laurence Laurentz sia l'eleganza di Laurence Olivier, sia alcuni maestri europei del mèlo trapiantati a Hollywood, come i tedeschi Douglas Sirk e Max Ophüls.
Musical e marinai
Kolossal storici, western e melodrammi, ma in questa ideale 'galleria' della Hollywood degli anni Cinquanta non poteva mancare un altro genere simbolo della Golden Age: un genere che esprime al massimo grado la cura estetica, la raffinatezza formale, nonché il carattere scopertamente artificioso e antinaturalista del cinema dell'epoca, vale a dire il musical. Genere che ha conosciuto alterne fortune nel corso degli anni, segnato dalla contrapposizione fra una tendenza al rinnovamento e un nostalgico senso di anacronismo, il musical è affidato in Ave, Cesare! alla trascinante esibizione di un cast di marinai canterini e ballerini capitanati da Burt Gurney, che ha le agili movenze e il sorriso carismatico di Channing Tatum; e il suo personaggio riporta subito alla mente il leggendario Gene Kelly, protagonista fra l'altro di due celebri musical in cui recitava in tenuta da marinaio, ovvero Due marinai e una ragazza (1945) e Un giorno a New York (1949).
Bellezze al bagno
Se Burt Gurney sembra ricalcato sull'immagine divistica di Gene Kelly, perfino più immediato è il richiamo fra la giovane e capricciosa star DeeAnna Moran (Scarlett Johansson) e un'attrice popolarissima negli anni Quranta e Cinquanta, Esther Williams, campionessa di nuoto messa sotto contratto dalla MGM e impiegata per un gran numero di film musicali a base di coreografie in piscina, fra tuffi spettacolari e acrobazie acquatiche. Lanciata nel 1944 da un film campione d'incassi intitolato, guarda caso, Bellezze al bagno, la Williams ebbe una carriera folgorante fino al decennio successivo; e la "sirenetta" impersonata dalla Johansson in Ave, Cesare! costituisce un richiamo diretto a un altro tassello imprescindibile dell'iconografia hollywoodiana di quegli anni. Inutile specificare come i Coen mettano in rilievo lo stridente contrasto fra l'apparente candore della Moran e una sfera privata tutt'altro che immacolata.
Hollywood Babilonia
Proprio DeeAnna Moran rischia di vedere la propria carriera rovinata da un potenziale scandalo sulla sua maternità... e la presenza opprimente della cosiddetta "stampa rosa" rappresenta infatti una delle più importanti storyline di Ave, Cesare!. Nel film, la stampa scandalistica è un "mostro a due teste" che divora e fagocita la materia di cui si nutre, i divi di Hollywood, con curiosità strisciante e malizia implacabile; un elemento di cui è possibile ravvisare l'inesorabile attualità, al di là del passaggio di medium dalla carta stampata al web (se possibile, un Leviatano ancor più mostruoso e famelico). E le cronache del gossip, fenomeno parassitario in grado di costruire così come di distruggere intere carriere con il solo potere dell'inchiostro, in Ave, Cesare! sono il campo di battaglia di Thora e Thessaly Thacker, sorelle gemelle dall'abbigliamento eccentrico, alle quali presta il volto una gustosa Tilda Swinton. La fiera rivalità fra Thora e Thessaly, consumata a colpi di scoop, riecheggia fra l'altro quella fra le due famigerate croniste della Hollywood classica, Hedda Hopper e Louella Parsons, note appunto per la mancanza di scrupoli nella caccia ai pettegolezzi e per i loro stravaganti cappellini. In particolare Hedda Hopper, ex attrice convertita al giornalismo rosa, si concesse dei camei nel ruolo di se stessa in diversi film, fra cui Viale del tramonto di Billy Wilder, e negli anni Cinquanta fu una delle principali sostenitrici della commissione anticomunista di McCarthy; la sua posizione nella "caccia alle streghe" è stata ricordata di recente anche ne L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo, dove la Hopper è interpretata da Helen Mirren.
Lo spettro rosso e la caccia alle streghe
Arriviamo così ad un ultimo aspetto di Ave, Cesare!, nonché uno di quelli più densi e interessanti: il comunismo a Hollywood. A partire dalla seconda metà degli anni Quaranta, con l'esplosione della Guerra Fredda e lo "spettro rosso" agitato spesso e volentieri a fini politici come spauracchio per le masse, gli Stati Uniti sperimentavano uno dei capitoli più foschi della loro storia con l'istituzione della Commissione per le attività antiamericane da parte del Senatore Joseph McCarthy, che parallelamente alle indagini dell'FBI di J. Edgar Hoover dava inizio a una ferocissima "caccia alle streghe" volta a colpire chiunque fosse sospettato di simpatie socialiste o di coltivare opinioni politiche troppo spostate a sinistra. Il Maccartismo avrebbe portato a una drastica riduzione dei diritti civili e della libertà d'espressione e, nell'ambiente hollywoodiano, avrebbe colpito numerose figure di spicco, da Charles Chaplin allo sceneggiatore Dalton Trumbo (per chi volesse saperne di più, rimandiamo a film come Indiziato di reato e appunto L'ultima parola).
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E i Coen, nel loro irriverente affresco della Hollywood degli anni Cinquanta, affrontano pure questo tema, ma da un punto di vista originalissimo e del tutto privo di retorica: ovvero, inscenando un vero e proprio complotto filosovietico da parte di una banda di sceneggiatori sinistroidi (gli sceneggiatori del resto, in quanto intellettuali, erano stati la categoria più colpita da McCarthy) che hanno costituito una sorta di associazione segreta definita "il Futuro". Naturalmente, tale espediente permette ai Coen di evidenziare con arguzia tutti i paradossi e i cliché del terrore antisovietico dell'epoca: dagli sproloqui sul marxismo di fronte a un inebetito George Clooney al delirante colpo di scena che rivelerà appieno le dimensioni del folle piano degli sceneggiatori, laddove la parodia si muove al confine con la satira. E anche il comunismo, in fondo, non risulta che l'ennesima "variabile impazzita" in quel regno governato dal caos e (ricordiamolo sempre) da una genuina stupidità. Almeno fino a quando non arriverà un Eddie Mannix a ricordare a tutti che la macchina hollywoodiana non può fermarsi, lo spettacolo deve andare avanti e gli ingranaggi non possono smettere di girare; neppure al cospetto di un Cristo crocefisso del quale, sublime esempio di iconoclastia, ci è concesso vedere soltanto i piedi...