Il 25 novembre - Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, istituita dall'ONU nel 1999 - è sempre una giornata difficile. Perché i social si riempiono di scarpe rosse e fiocchi simbolici, messaggi di sostegno e belle parole, per poi tornare - poche ore dopo - a insultare, discriminare, bullizzare, usare violenza verbale. E non solo. Ogni anno in Italia circa cento donne - una ogni tre giorni - vengono ammazzate dai loro ex mariti, ex fidanzati, ex compagni che non accettano la fine della relazione. Per non parlare del numero delle violenze e delle aggressioni sessuali. Incalcolabili, visto che per la maggior parte non vengono nemmeno denunciate. Il mondo della cultura parla. Scrive. Predica. Ma difficilmente i messaggi arrivano forti come quelli lanciati dalle immagini. E così, cinema e serie TV diventano fondamentali per denunciare e far riflettere su un'emergenza sociale che non sembra essere tale, dal poco spazio che le viene dedicato.
Rischiare personalmente in nome delle altre
C'è un film, inspiegabilmente ignorato dalla critica e poco conosciuto dal grande pubblico in Italia, in cui hanno lavorato giovani attori famosi (Adam Brody, che tutti abbiamo conosciuto grazie a The O.C., Chris Lowell di Glow, Max Greenfield di New Girl, Sam Richardson di Veep), accettando ruoli molto "scomodi" pur di sostenere il progetto dell'autrice. Una donna promettente (Promising Young Woman), scritto e diretto da Emerald Fennell (vincitrice di un Oscar per questa sceneggiatura), è stato fortemente voluto dalla protagonista Carey Mulligan. L'attrice, candidata due volte all'Oscar per questa interpretazione e per quella di An Education, firma anche come produttrice esecutiva. Inglese come l'amica Fennell, sceneggiatrice e regista del film, è molto impegnate sul fronte della parificazione dei diritti per le donne.
Molti altri i nomi importanti che hanno aderito al progetto (Connie Britton, Clancy Brown, Jennifer Coolidge, Alison Brie) proprio per sottolineare che le cose, almeno dietro la macchina da presa, sono cambiate. Una donna promettente è un film duro, crudo, crudele. Un pugno nello stomaco che rappresenta la sublimazione del processo evolutivo di denuncia della violenza sulle donne nell'era post #metoo. Carey Mulligan si mette in gioco girando scene molto difficili, probabilmente le più difficili per una donna. E lo fa nei panni di Cassandra, che combatte in nome della sua migliore amica, vittima di stupro.
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L'eredità di #metoo
Dopo lo scandalo Weinstein, il movimento #metoo e i relativi casi mediatici, la produzione di denuncia al femminile ha cambiato i toni. Ha puntato sul mostrare senza filtri la brutalità delle aggressioni, la colpevolizzazione delle vittime, la valenza minore della parola di una donna rispetto a quella di un uomo. Tutto senza mai nascondersi dietro metafore e senza mai tagliare anche le parti più dure. Il finale di Una donna promettente è uno schiaffo dritto in faccia... ma uno schiaffo che arriva a colpire non solo lo spettatore, anche molti dei personaggi del film. La violenza sulle donne colpisce duro, a Hollywood. Perché i cosiddetti femminicidi sono ormai all'ordine del giorno e sì, è vero: rischiamo di abituarci anche a questo. Per scongiurare un evento che sarebbe distruttivo per la dignità stessa delle donne, il filone cinetelevisivo che affronta l'argomento violenza sulle donne ha scelto di affrontare la situazione a muso duro. Senza sconti. Siamo costretti - tutti noi spettatori, uomini e donne - ad assistere a scene disturbanti, fastidiose, a volte intollerabili.
L'era della denuncia del #metoo è finita, si è passati alla lotta perché nulla è cambiato. Non fuori da Hollywood, almeno. I produttori si guardano bene dal pretendere prestazioni sessuali in cambio di ruoli importanti, ma finisce lì. E, magari, un giorno la paura passerà e ci proveranno di nuovo. Del resto, nel 2022, di fronte a una violenza sessuale siamo ancora fermi al vecchio "in fondo se l'è cercata". Per com'era vestita. Per dov'era. Perché era sola... E questo non va affatto bene. Jodie Foster e Kelly McGillis nel lontano 1988 con Sotto accusa parlavano proprio di questo: di una donna che "in fondo se l'era cercata". Quasi 35 anni dopo, siamo ancora fermi lì. Ecco quindi che ad affiancare Una donna promettente ci sono molte altre produzioni di denuncia. Tutte pronte a tirare pugni nello stomaco al pubblico, perché rifletta. Perché capisca. Perché cambi mentalità.
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La tua parola contro la mia
Unbelievable, miniserie Netflix del 2019 con Toni Collette, è ispirata a fatti realmente accaduti. Racconta la storia di un'adolescente che denuncia di essere stata stuprata, e non viene creduta. Da nessuno. Fino al punto di autoconvincersi che non sia mai successo. Un detective, naturalmente un uomo, arriva a dubitare della parola della vittima in modo così convincente, o forse sarebbe meglio dire meccanico: ampiamente provato e ripetuto, da far dubitare perfino lei dei suoi ricordi. Del suo dolore. Della sua paura. Perché non ci sono solo il trauma e la violenza del momento: c'è tutto un mondo post-aggressione in cui le vittime soffrono di attacchi di panico, vivono nella paura, finiscono per non uscire di casa, smettono di frequentare chiunque. E Unbelievable ci parla di questo, e del peso degli uomini che dovrebbero tutelare le vittime nella meccanizzazione di questo processo che rovina la vita più di quanto avessi già fatto il trauma dell'aggressione. Solo il lavoro pressante di due detective - Toni Collette (About a Boy) e Merritt Weever (Nurse Jackie) - servirà a far emergere la verità.
Unbelievable è diretta da due donne, scritta da due donne (insieme a un uomo: il punto di vista maschile è fondamentale, e si sente nella scrittura) e interpretata da un cast al femminile straordinario sotto molti punti di vista. Perché mette in scena la realtà. Donne vere. Donne comuni. Donne "normali": niente supermodelle improbabili detective o poliziotte in abiti aderenti e tacchi a spillo. La cosa incredibile - unbelievable, appunto - è l'intera storia. L'incredulità si arrende di fronte alla segregazione riservata alle donne in una società che si occupa delle denunce, credendoci, solo se a denunciare è qualcuno di benestante, insospettabile, senza uno straccio di problema. Diversamente, sono guai. Perché il "se l'è cercata/inventata" è costantemente lì, acquattato in un angolo, a rovinare la vita di donne di ogni età e provenienza che si pentono di aver parlato. Invece bisogna parlare. Unbelievable ci dice questo: parlate. Qualcuno, alla fine, vi crederà. Vi darà ragione. Cercherà di rendervi giustizia. Unbelievable si divide in 8 puntate che scorrono via come se fossero un lungo, drammatico, coinvolgente film. Ha conquistato il favore del pubblico e della critica, ha visto arrivare una pioggia di candidature ai Golden Globes e ad altri premi, ma non ne ha vinto nessuno. Forse le due detective non hanno compiuto il miracolo che ci aspettavamo: non hanno convinto fino in fondo i giurati. Magari perché qualcuno aveva ancora dei dubbi sul fatto che il caso di cui si sono occupate fosse davvero reale...
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Non chiamatele sciocchezze
Molestia. Così si usa definire i comportamenti sessualmente inappropriati rivolti a donne e uomini. Il termine è nato per rispondere a un'esigenza lavorativa e scolastica: ambienti in cui fin troppo spesso si sono ripetuti abusi di vario tipo. Impiegati e studenti di entrambi i sessi che si sono visti sottoporre ad approcci del tutto inappropriati, a veri e propri ricatti sessuali, a discriminazioni fondate sul loro genere e sul loro essere semplicemente... lì. A disposizione dei colleghi e dei superiori. Le molestie sessuali sono un argomento serio, importante. Ma in un episodio di Settimo cielo, Jessica Biel mandava un ragazzo dal preside del liceo perché le aveva "tirato una bretella del reggiseno". Ecco: oggi, gli strascichi negativi del #metoo sono questo. Bretelle del reggiseno tirate dai compagni di scuola. Perché oltre ad aver fatto emergere il "sistema" Weinstein, il movimento ha anche avuto una serie di effetti negativi, di cui cinema e TV si stanno ampiamente occupando. Il principale, e più diffuso, consiste proprio nel considerare qualsiasi cosa una molestia sessuale e, di conseguenza, la minimizzazione di molestie che sono veramente tali.
Per questo tre donne potenti e influenti di Hollywood - Margot Robbie, Nicole Kidman e Charlize Theron, due Oscar in tre - hanno investito soldi, impegno e reputazione in Bombshell - La voce dello scandalo. Per parlare di un argomento importante con il film che racconta la storia vera delle donne che trovarono il coraggio di denunciare le molestie sistematicamente perpetrate da Roger Ailes, capo di Fox News. Bombshell è un film importante, che vede l'impegno di quella parte di Hollywood che ha gridato #metoo soffiando sul fuoco. Ma qualcosa non ha funzionato. Non del tutto. Perché Bombshell è piaciuto, sì, ma non ha avuto l'effetto degli altri film e serie di cui vi parliamo in questa occasione. Per una sola, semplice, oggettiva ragione: ci è andato un po' troppo piano. Lo segnaliamo perché se n'è parlato molto prima della sua uscita, e molto meno dopo. Per come la vediamo noi, è il film che fa da spartiacque fra la produzione del #metoo e quella successiva. Più incisiva, coraggiosa, cruda, pronta a colpire per arrivare al suo scopo. Cosa che il film di alto profilo delle tre attrici non è riuscito del tutto a fare. La patina dell'ambiente si estende anche al modo in cui vengono trattate le donne, nascondendo molto. Ci si affida alle parole... Ma le immagini sono molto, molto più efficaci.
I comportamenti al centro della narrazione sono tutt'altro che sciocchezze. Bombshell lo dice forte e chiaro, ma si ferma lì. Ha un grande pregio, però: ci racconta che "abuso" non significa necessariamente violenza completa, fisica, che lascia segni visibili. C'è anche un altro tipo di violenza, altrettanto potente. Quella che tiene le donne rinchiuse in casa mentre il marito non c'è, perché anche solo dire "grazie" al postino significherebbe fare un torto alla fedeltà coniugale. Quella violenza è diffusa, quotidiana, feroce. Se Bombshell avesse fatto un passo in più, ci sarebbe arrivato. Per fortuna, le cose sono cambiate. Come nei due titoli di cui vi ho parlato prima di questo, la denuncia è forte e chiara. Cruda e crudele. Inequivocabile e diretta.
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L'onere della prova
Te la sei cercata. O te la sei inventata. L'unico crimine in cui l'onere della prova spetta costantemente alla vittima sono gli abusi sessuali. Come se aspettare 9 giorni, o 9 mesi, o 9 anni, per denunciare uno stupro fosse la prova che non è successo niente. E quando sono personaggi che hanno molta influenza sulla politica di un Paese a gridare queste cose, il segnale è chiaro: viviamo ancora nel passato. Nell'Italia che ha abolito il delitto d'onore e il matrimonio riparatore nel 1981. Nel Paese in cui lo stupro è stato un delitto contro la morale e non contro la persona fino al 1996. Millenovecentonovantasei! La dimostrazione di come un trauma possa rimanere sepolto - per volontà o per incapacità di affrontarlo - per venti o trent'anni è la storia de La ragazza più fortunata del mondo. Il film con Mila Kunis, che è stato in testa alla classifica dei film di Netflix in Italia, ci parla proprio di questo. Di come una vittima finisca per passare come carnefice. O come mostro colluso con i veri responsabili di un orrore. Di come una ragazza abbia dovuto - per andare avanti, per sopravvivere al trauma - diventare una maniaca del controllo. Imporsi una rigida disciplina. Scalare la montagna sociale e lavorativa grazie a intelligenza, pazienza, strategia, determinazione. Una ragazza che oggi è diventata una donna prossima a sposare l'uomo dei sogni, o colui che da fuori lo sembra davvero. Ogni tragedia nella vita offre l'opportunità di fare qualcosa di diverso. Qualcosa di gentile.
La ragazza più fortunata del mondo, la recensione: il ricordo è una terra straniera
Non sono le parole della vittima, sono quelle del carnefice. Perché la società fa in fretta a distinguere fra i due: basta il genere. La donna mente, manipola, inventa, se la va a cercare. L'uomo dice sempre la verità. Perfino quando sa benissimo di mentire spudoratamente. Spudoratamente. Spudorati: sono così, gli uomini che pensano che un no sia in realtà un sì. Che la paralisi della paura sia consenso. Che l'incapacità di denunciare sia tacito assenso. Per questo tre donne straordinarie - Mila Kunis, Connie Britton (grandiosa, come sempre), Jennifer Beals - si sono impegnate a dar voce a questa storia. A quella verità che il carnefice conosce, ma mai ammetterebbe. Mai confesserebbe. Fare i conti con la propria coscienza, a quanto pare, per lo stupratore è facile. Per la vittima, che per quel condizionamento sociale e culturale del "te la sei cercata" colpevolizza se stessa, invece le cose vanno diversamente.
"La ragazza più fortunata del mondo" è quella che vive nel mondo patinato e bellissimo dei privilegi, in cui si è arrampicata con indicibile fatica al solo scopo di arrivare abbastanza in alto da buttare di sotto i mostri. I mostri veramente privilegiati, quelli che la fanno franca perché sono di buona famiglia. O hanno i soldi. O non pensano - non capiscono, ecco il termine corretto - cosa sia un no. Tanto poi cambia idea.
"Sono talmente bello/affascinante/ricco/potente/importante che nessuna mi direbbe di no". Guardare La ragazza più fortunata del mondo equivale a entrare in quel mondo, prendendosi una rivincita a nome di tutte le donne che non sono state credute.
Lì, nei film e nelle serie TV. E qui, nella realtà.
Nella realtà che oggi, 25 novembre, si ammanta di voglia di credere ed empatia, di sostegno e di fiducia, di sentimenti veri ma anche di tanta, tanta ipocrisia.