David Harbour ripercorre l'impatto che Stranger Things ha avuto sulla sua carriera e sulla sua identità professionale. Il successo globale ha rivoluzionato tutto: opportunità, percezione del pubblico e confini emotivi del mestiere, lasciando intatta solo la sua ambizione creativa.
Da "attore numero sette sul set" a icona mondiale
Prima dell'arrivo di Stranger Things, la carriera di David Harbour si muoveva tra i palcoscenici di Broadway e i piccoli ruoli in film e serie: Pan Am, The Newsroom, Quantum of Solace, State of Play. "Mi piaceva davvero essere il numero 7 in un film d'azione con Denzel Washington, e anche essere protagonista in spettacoli al Public Theater. Era una vita adorabile, una vita fantastica, una vita in un appartamento con una sola camera da letto nell'East Village", ricorda. Tutto cambia nel 2015, quando viene scelto per interpretare Hopper: l'unico adulto protagonista in un cast dominato da adolescenti.
Il risultato supera qualunque previsione: la serie non solo diventa un fenomeno globale, ma porta Harbour dalla periferia dell'industria al centro della scena hollywoodiana. Nel giro di pochi anni arrivano ruoli da protagonista - dal reboot di Hellboy al Santa combattivo di Violent Night - e, soprattutto, l'ingresso nell'MCU con Red Guardian in Black Widow, Thunderbolts e Avengers: Doomsday. "Dal punto di vista della carriera ha aperto un'enorme quantità di porte", racconta, aggiungendo che oggi la sua curiosità è concentrata su ciò che viene dopo la fine della saga Netflix.
Il peso del successo e il lato nascosto del mito Stranger Things
Harbour descrive l'esperienza Stranger Things come una medaglia con due facce: travolgente e trasformativa, ma anche complessa da gestire. "Ha distrutto l'intera concezione di ciò che sarei stato", ammette, spiegando che il salto di notorietà ha riscritto la sua identità professionale. Non rimpiange l'ascesa, ma riconosce che qualcosa è andato perduto per strada.
L'attore parla con grande affetto del lavoro con i creatori Matt e Ross Duffer, ricordando gli inizi più liberi della serie - un piccolo titolo senza pressioni né supervisioni costanti - e la progressiva precisione tecnica dei fratelli, ormai concentrati "su movimenti di camera, strutture, tagli, tutto". Al centro resta Hopper, personaggio che Harbour ha contribuito a modellare stagione dopo stagione: dal tutore introverso della prima stagione, al padre iperprotettivo, fino al guerriero fragile della quarta. Ora la metamorfosi raggiunge il suo ultimo capitolo con la quinta stagione.
Harbour conosce meglio di chiunque la grande dicotomia della fama: "Guadagni qualcosa e perdi qualcosa". E usa un esempio emblematico per parlare delle conseguenze di un successo che raggiunge il pubblico di massa: "Hopper non fuma più nella serie. È una conseguenza diretta della popolarità. Quando il pubblico diventa così grande, cerchi di mantenere gli spigoli morbidi."
L'attore non nasconde di rimpiangere i giorni in cui Stranger Things era "il piccolo show dimenticato" e tutto era possibile, ma riconosce altrettanto chiaramente l'altra faccia della verità: "Amo l'attenzione. Amo raggiungere il pubblico più ampio possibile. Amo muovere più persone possibile con quello che facciamo."
Tra libertà creativa e responsabilità verso milioni di fan, David Harbour parla come solo chi ha attraversato un fenomeno culturale può fare: pieno di gratitudine, ma con lucidissima memoria di ciò che lo ha reso - e cambiato - per sempre.