Recensione Jack e Jill (2011)

Dopo trenta film e ventitré anni di carriera, Adam Sandler s'incorona definitivamente re della commedia famigliare facendosi in due nel film diretto dall'amico Dennis Dugan e incentrato su ad una coppia di gemelli sull'orlo di una crisi d'identità.

Vite da gemelli

Che si tratti di un effettivo legame genetico o di una semplice leggenda metropolitana, è risaputo che i fratelli gemelli sono dotati di poteri eccezionali. Abituate a condividere e coabitare ancor prima della nascita, queste coppie esclusive sviluppano linguaggi segreti e una sensibilità quasi ultrasensoriale per captare gli stati d'animo dell'altro. Una sorta di unione atavica che tutti unisce indistintamente, fatta eccezione per Jack e Jill. Dopo essere cresciuti nel Bronx costantemente uno accanto all'altro, i due si separano prendendo strade diverse e indebolendo, in questo modo, il loro legame gemellare. Così, diventato un produttore pubblicitario con moglie, figli e villa a Los Angeles, Jack affronta con malcelata sopportazione l'annuale visita della sorella per il giorno del Ringraziamento. Al contrario, saldamente ancorata ai ricordi della loro infanzia, Jill arriva con la sua fisicità mascolina e un'inaspettata tenerezza d'animo a sconvolgere la perfetta quotidianità del fratello, riversando su di lui una quantità spropositata di affetto tanto inespresso quanto costantemente fuori luogo. Ma tutto sembra destinato a cambiare quando, lontano da ogni previsione, la sorella indesiderata riesce ad attrarre le attenzioni amorose di una delle star più luminose del firmamento hollywoodiano. Al Pacino, sull'orlo di un esaurimento nervoso causato dalle sue performance teatrali, vede in questa donna scarsamente attraente e onestamente ruvida il riflesso dei suoi anni giovanili trascorsi sulle strade del Bronx. Un amore folle che Jack benedice immediatamente sperando in un tornaconto personale, ma che lo costringerà a fare i conti con una Jill più attratta dalla calorosa naturalezza di un giardiniere messicano che dall'enfatica eccentricità di un premio Oscar.


Più di trenta film realizzati per un totale di ventitré anni trascorsi sul grande schermo; questi sono i numeri di Adam Sandler che, dopo aver esordito in una puntata de I Robinson ed essere diventato uno dei capisaldi del Saturday Night Live, ha fatto della comicità demenziale l'elemento principe su cui costruire la propria carriera. Così, dopo aver dimostrato alla critica di avere le doti artistiche per ambire a commedie dai toni più sofisticati come Ubriaco d'amore, Spanglish e Reign over me, l'attore/sceneggiatore/produttore è tornato con entusiasmo a una leggerezza che oggi sembra vestire più serenamente rispetto al passato. A ricondurlo sulla strada maestra è stato l'incontro con il regista Dennis Dugan che, dopo Zohan, Un weekend da bamboccioni e Mia moglie per finta, firma anche il nuovo Jack e Jill, chiedendo all'amico e compagno di set di farsi decisamente in due per interpretare questa coppia di gemelli sull'orlo di una crisi d'identità.

Senza ambire ad elementi di critica sociologica, il film rispetta pienamente gli intenti di una cinematografia familiare che, prestando particolarmente attenzione alle richieste di un pubblico adolescenziale, stempera gli immancabili buoni sentimenti americani con una giusta dose d'irriverenza. La tempistica comica costruita dal duo Dugan/Sandler rifiuta l'eccesso di una volgarità verbale più adulta, ma sceglie di riproporre le forme di un'ilarità infantile, mostrando quanta perfida innocenza può celarsi dietro il fattore scatenante di una risata. Da qui, l'uso di un umorismo sempre volutamente demenziale in cui l'essere umano mette in gioco le infinite possibilità espressive di corpo e anima.

Ma, andando oltre la superficie di un lieto fine inevitabile in cui la riconoscibilità della fratellanza prende il sopravvento e tralasciando la costruzione narrativa dalle variabili facilmente prevedibili destinate a premiare la sfortunata Jill, Dugan e Sandler si divertono a caratterizzare il film come una "trappola" per attori. Mossi da un perverso gusto satirico, i due gettano le basi per una benevole ma pungente critica di una categoria spesso al di sopra di ogni umana realtà. In questo modo, a una Katie Holmes piegata più o meno consapevolmente alla rappresentazione per lei famigliare di una moglie minimal chic e allo stesso Sandler costretto a fari i conti con il suo alter ego femminile, si contrappone un Al Pacino che, goliardicamente impegnato nella parodia di se stesso, ride con assoluta determinazione del genere bizzarro cui appartiene. Forte di una professionalità che nulla deve dimostrare, l'attore premio Oscar si prende gioco di un Padrino mai dimenticato e dissacra la stentorea teatralità di Shakespeare, il tutto cavalcando una chiara follia che i poveri mortali sono soliti chiamare fervore artistico. Una pazzia che, come quella dell'ingenuo Don Chisciotte per l'occasione chiamato in causa dallo stesso Pacino, racconta i particolari di un mondo tanto autoreferenziale e inconsistente da anelare all'imperfezione della realtà per ritrovare, se non il senno, almeno la forza per guardare a se stessi con disincantata ironia.

Movieplayer.it

3.0/5