Vestito per uccidere: il cult di Brian De Palma fra Psycho e il postmoderno

In Vestito per uccidere, Brian De Palma rende omaggio ad Alfred Hitchcock in un memorabile thriller che anticipa il gusto postmoderno del cinema degli anni Ottanta.

Don't make me a bad girl again...

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Vestito per uccidere: un primo piano di Angie Dickinson

Nell'ambito del cinema americano, il 1980 costituisce un autentico anno di svolta per l'evoluzione del thriller e dell'horror. A febbraio escono negli Stati Uniti due film per certi versi speculari l'uno all'altro, le cui rispettive cornici urbane - Los Angeles e New York - assumono un valore preminente: American Gigolò di Paul Schrader e Cruising di William Friedkin. Il filone dello slasher, consacrato due anni prima da Halloween, viene rilanciato da Venerdì 13, a sua volta capostipite di un redditizio franchise; nel frattempo, Stanley Kubrick riscrive le coordinate del genere horror con il capolavoro Shining. E un paio di mesi più tardi, il 25 luglio, fa il suo debutto nelle sale un thriller che, pur prendendo a modello riferimenti del passato, già contiene suggestioni e stilemi che caratterizzeranno i dieci anni a venire: Vestito per uccidere.

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Vestito per uccidere: un'immagine della scena iniziale

Diretto da uno dei grandi maestri della suspense, Brian De Palma, il film opera a suo modo una sintesi delle diverse anime del cinema di genere (la detective story a sfondo metropolitano, il neo-noir, lo slasher, l'horror psicologico), ma secondo un approccio che lo distingue in maniera netta dagli altri titoli citati. In Vestito per uccidere, infatti, trova pieno compimento quello spirito postmoderno tipico di buona parte della produzione del regista di Newark: per il suo gusto citazionista, innanzitutto, ma più in generale per la divertita consapevolezza nel giocare con i codici del thriller, messi alla prova ed 'esasperati' fin dallo smaccato erotismo della scena d'apertura.

Brian De Palma: l'allievo di Alfred Hitchcock

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Brian De Palma e Nancy Allen

La fascinazione di Brian De Palma per il thriller, del resto, risaliva agli inizi del decennio precedente e ai primi successi del regista: Le due sorelle (1972), opera ispirata al cinema di Alfred Hitchcock (e per la quale De Palma si era avvalso della collaborazione del compositore Bernard Herrmann); Obsession - Complesso di colpa (1976), altro thriller tipicamente hitchcockiano, basato stavolta su Vertigo - La donna che visse due volte; il cult Carrie - Lo sguardo di Satana (1976), tratto dal romanzo d'esordio di Stephen King; e Fury (1978), altro horror paranormale sulla scia di Carrie. Se dunque già ne Le due sorelle e Obsession De Palma recuperava temi e stilemi dei classici di Hitchcock, in Vestito per uccidere va perfino oltre: non si tratta più solo di semplici influenze, ma di una vera e propria rielaborazione del capolavoro Psycho secondo il gusto e l'estetica dei nascenti Eighties.

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Vestito per uccidere: Angie Dickinson nella scena dell'omicidio
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Omicidio a luci rosse: un'immagine di Melanie Griffith

Una rielaborazione in cui però, con piena sensibilità postmoderna, la suspense risulta intessuta con un'inesorabile ironia che scorre per l'intera durata del film: un'ironia latente, e quindi senza mai arrivare a sfociare nella parodia o nella farsa, ma tuttavia palpabile, in particolare in alcuni dialoghi. È il primo, importante tratto distintivo di Vestito per uccidere rispetto alle precedenti pellicole del regista: la natura dell'oggetto filmico come puro artificio, come divertita rievocazione del passato, come connubio fra classicismo e contemporaneità. Un approccio che De Palma riprenderà non a caso negli anni a venire: non tanto in Scarface (1983) e Gli intoccabili (1987), in cui comunque aggiorna le convenzioni del gangster movie degli anni Trenta, quanto in Blow Out (1981), che cita fin dal titolo Blow-up di Michelangelo Antonioni, e in Omicidio a luci rosse (1984), ovvero l'apoteosi del postmoderno applicato al cinema di Hitchcock.

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Attrazione e omicidi, fra Vertigo e Psycho

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Vestito per uccidere: un'immagine della scena al Met

La dicotomia tra finzione e realtà, con quest'ultima vulnerabile alle incursioni del sogno: uno degli elementi-cardine della poetica postmoderna apre - e chiude - Vestito per uccidere, il cui incipit è costituito dalla fantasia onanistica di Kate Miller, moglie e madre di famiglia con le sembianze da "bionda hitchcockiana" dell'attrice Angie Dickinson. Da quell'accenno iniziale al legame fra sesso e morte (l'aggressione nella doccia, prima eco hitchcockiana), i primi trentacinque minuti del film sono fra le pagine più seducenti e impressionanti dell'intera filmografia di De Palma: sul piano della struttura narrativa, un calco della sezione di Psycho dedicata al personaggio di Marion Crane; sul piano estetico e iconografico, un magnifico omaggio alla scena del pedinamento nel museo di Vertigo.

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Vestito per uccidere: Angie Dickinson in una scena del film

Ma si tratta di un omaggio vivido e ironico: se in Vertigo era il detective Scottie Ferguson di James Stewart a spiare la misteriosa Madeleine Elster di Kim Novak, qui Brian De Palma rovescia i rapporti di forza, con la signora Miller di Angie Dickinson che vagheggia gli sguardi maschili e attira un visitatore sconosciuto in un gioco di seduzione. Un gioco totalmente muto (per oltre nove minuti non viene pronunciata una singola parola), con la musica di Pino Donaggio che ricalca le partiture hitchcockiane nel commentare le azioni dei personaggi. Infine, come la Marion Crane di Janet Leigh, anche Kate Miller andrà incontro al suo atroce destino: da presunta protagonista assoluta a vittima a sorpresa del killer di turno, in una magistrale scena di omicidio in cui la doccia di Psycho viene sostituita dalla cabina di un ascensore, mentre le ombre che ammantano la signora Bates si tramutano in un labirinto di specchi e di riflessi.

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Vestito per uccidere: un'immagine dell'assassino

Lo specchio, appunto: un oggetto simbolico, metafora di sdoppiamenti, di superfici che restituiscono frammenti di realtà (è in uno specchio che la squillo Liz Blake vede il volto dell'assassino), ma pure di immagini ingannevoli, trasfigurate (come il killer stesso, con impermeabile nero, occhiali scuri e folta capigliatura bionda). E al contempo l'ironia, l'artificio: in Psycho, la morte di Marion Crane segnava l'esplodere della tensione con un improvviso assalto ai nervi dello spettatore; in Vestito per uccidere, l'omicidio di Kate Miller è intervallato dallo scambio di battute fra la Liz di Nancy Allen e il suo cliente, il quale non esita a darsela a gambe alla vista del corpo insanguinato di Kate. E chi è in fondo la vera eroina del film? Liz, giovane squillo d'alto bordo braccata da un feroce maniaco nello scenario di una metropoli notturna e gravida di minacce (si veda la macrosequenza in metropolitana).

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Vestito per uccidere: Nancy Allen in una scena del film
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Vestito per uccidere: una foto di Nancy Allen

La situazione, in apparenza, è la stessa di Bree Daniels, la prostituta interpretata da Jane Fonda in un altro splendido thriller di ambientazione newyorkese, Una squillo per l'ispettore Klute, diretto nel 1971 da Alan J. Pakula; eppure i due personaggi - e i due film - non potrebbero essere più distanti, nel tono come nello spirito. Liz si dimostra infatti una detective per necessità, spinta da un'improvvida incoscienza, ma anche da una vivace determinazione; in lei non c'è traccia delle contraddizioni e delle inquietudini di Bree Daniels, così come in Vestito per uccidere viene meno il rigoroso iperrealismo dei thriller polizieschi della New Hollywood. In questo senso, De Palma assume una prospettiva del tutto nuova: se anagraficamente si colloca accanto ad altri grandi registi emersi negli anni Settanta, il suo cinema è già proiettato verso le istanze del decennio successivo, alle prese con una riflessione sul valore dell'iconografia filmica.

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Un film-manifesto del cinema postmoderno

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Vestito per uccidere: Nancy Allen e l'assassino

Vestito per uccidere esce nelle sale all'alba degli anni Ottanta, ma in retrospettiva può essere considerato una sorta di film-manifesto del cinema americano di fine secolo: per il suo citazionismo sfrontato ed eclettico, che anticipa di quasi tre lustri quello di Quentin Tarantino; per l'amalgama fra la passione per il "classico" (Hitchcock in primis) e una modernità che si nutre anche dell'immaginario pop (una caratteristica ancor più evidente in Omicidio a luci rosse); per l'attitudine a non prendersi troppo sul serio, sacrificando la profondità e il realismo sull'altare di un cinema inteso come rituale squisitamente ludico. Colto, raffinatissimo, eppure popolare, a volte addirittura trash: Brian De Palma, all'incirca nel medesimo periodo dello spagnolo Pedro Almodóvar, si sarebbe rivelato il massimo alfiere del postmodernismo nella settima arte; e in quest'ottica, a quarant'anni di distanza, Vestito per uccidere rimane davvero una delle testimonianze più riuscite.

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