Sorprendersi è già un indizio. Stupirsi significa sottolineare un'anomalia, quasi ammettere un problema. È iniziato tutto dai trailer, davanti ai quali i più irremovibili detrattori del cinema italiano hanno storto il naso e alzato gli occhi al cielo perplessi, mentre altri si entusiasmavano per cose mai viste e sentite prima da queste parti: musiche rock a commento di corse automobilistiche, teaser intriganti che svelavano poco alla volta un cinecomic con tutti i crismi ambientato a Tor Bella Monaca.
Poi, dopo i titoli di coda, gli scettici saranno forse rimasti chiusi nei loro paraocchi, mentre in tutti gli altri questa strana sensazione rimane, perché subito dopo aver visto Veloce come il vento e Lo chiamavano Jeeg Robot si rimane un po' così, tra l'incredulo e lo stupefatto, mentre persiste un senso di meraviglia che svela la nostra disabitudine a film italiani con tanta voglia di esplorare qualcos'altro, di scansare il già visto ed evitare ogni forma di déjà-vu. Non per il semplice gusto di farlo, ma con la consapevolezza di proporre nuove storie sotto vesti inedite, ma sempre calate nel contesto nostrano.
Leggi anche: La recensione di Lo chiamavano Jeeg Robot: Un supereroe a Tor Bella Monaca
Cambia la forma e la sostanza non ne risente, anzi trova nel genere un trampolino per rafforzare l'efficacia della drammaticità messa in scena. È bastato guardare le prime immagini di film di Gabriele Mainetti e Matteo Rovere per accorgersi subito di un ritmo cinematografico diverso, un cambio di passo estetico che, una volta in sala, si è rivelato anche narrativo. Veloce come il vento e Lo chiamavano Jeeg Robot raccontano di persone prima che di personaggi, nonostante i superpoteri e gli inseguimenti, le scazzottate e la guida spericolata. Oltre ad un comparto estetico curato, al di là del genere votato all'azione spettacolare, le opere di Mainetti e Rovere mettono al centro della scena i sentimenti e le potenti relazioni tra i loro protagonisti, tra odio, rancore, amore, affetto.
Oggi siamo qui a celebrare il cinema italiano che fa gridare al miracolo gli entusiasti e sussurrare un "finalmente" ai più prudenti, davanti a due film adottati come fenomeni di questo promettente 2016 cinematografico italiano. Due pellicole che per certi versi si somigliano, nelle scelte coraggiose e nella capacità autoriale di non perdere di vista il racconto pur mantenendo grande appetibilità commerciale. Allacciamo le cinture, prepariamo i cucchiaini per il budino e mettiamo allo specchio persone e personaggi che hanno tentato di cambiare, riuscendo tra tante difficoltà nel loro nobile intento.
Leggi anche: La recensione di Veloce come il vento: Una storia di riscatto sulle piste da rally
1. Superpoteri fuoripista: un genere insolito
Partiamo dal merito comune più evidente e scontato dei due film in questione: il genere. Sia Lo chiamavano Jeeg Robot che Veloce come il vento scomodano due generi al quale il cinema italiano si è dimostrato finora allergico. Il cinecomic e il dramma sportivo a sfondo automobolistico sono territori a noi sconosciuti, ritenuti sempre esclusiva dei grandi blockbuster hollywoodiani. Due habitat cinematografici che richiedono e muovono grandi budget per noi impensabili, e dai quali ci siamo sempre tenuti a debita distanza.
E invece no, e invece un genere diverso è possibile, e lo è stato perché non c'è stata una semplice riproposizione di canoni, ma una sapiente traduzione, un lavoro di adattamento di quei generi al nostro contesto culturale. Mainetti e Rovere non sono stati fagocitati dai generi, non ne sono risultati schiavi, anzi, se da abili conoscitori se ne sono serviti per raccontare delle storie attraenti, dove il fulcro umano domina uno spettacolo sempre ben messo in scena. Ebbene sì, i supereroi parlano romano, le auto possono sfrecciare per le strade di Matera, il teatro del duello decisivo è lo Stadio Olimpico. Se a qualcuno viene da ridere al sol pensiero, è un problema tutto suo.
Leggi anche: Cinema italiano: Non ancora veloce come il vento, ma nemmeno più un perfetto sconosciuto
2. La forza del contesto
E allora come si rende credibile un uomo che trova i suoi poteri sul fondo del Tevere? Come contestualizzare in Italia una storia di riscatto sportivo? Semplicemente attraverso belle storie e una scrittura in grado di calare il racconto nel contesto scelto. Pensiamo alla trovata geniale del villain de Lo chiamavano Jeeg Robot. Lo straordinario Zingaro di Luca Marinelli è un figlio deluso della televisione italiana, vista come fabbrica di talenti e illusioni. Rimanere esclusi da questa lavatrice mediatica che usa e getta i suoi beniamini a tempo determinato equivale a impazzire. Così questo cattivo, prima che capo di una banda di malavitosi, è un disperato che vuole essere qualcuno, affamato di visibilità prima che di richezze e potere.
Così prende forma un villain appassionato di vecchia musica italiana ma perfettamente sintonizzato con questi tempi basati su visualizzazioni e viralità, forse l'esempio migliore di un film radicato qui e ora. Lo stesso vale per Veloce come il vento il cui sguardo si eleva oltre piste e circuiti per diventare persino sociale attraverso la difficile integrazione dei due fratelli De Martino. A suggellare il forte senso di appartenenza dei due film arriva anche il frequente uso del dialetto: il romanesco e l'emiliano-romagnolo (la lingua dei motori) emergono in tutta la loro potenza espressiva, anche grazie a delle battute già diventate tormentoni ("vacca boia", "a me a ggente me fà schifo").
Leggi anche: Lo chiamavano Jeeg Robot: il bisogno d'amore dei supereroi secondo Mainetti, Marinelli e Santamaria
3. Incarnare il malessere
Due uomini ai margini, due persone che sembrano quasi riconoscersi negli appartamenti fatiscenti dove abitano. Scorticati, abbattuti, sporchi. Loris De Martino ed Enzo Ceccotti sono due individui dimenticati da tutti tranne che dai loro registi. Mainetti e Rovere affidano le redini dei loro film a due personaggi diversi per carattere, ma entrambi al centro di due grandi storie di rivincita. Da una parte il riluttante Enzo che sguazza nella sua mediocrità e ribadisce di continuo la sua volontà quasi sociopatica di non voler essere qualcuno ("io non sono amico di nessuno"), dall'altra l'ex stella Loris, "disperato vero", caduto nel dimenticatoio e disperso nella tossicodipendenza, ma ancora in grado di volersi bene grazie ad una voglia di riscatto familiare prima che personale. Due personaggi descritti soprattutto attraverso le loro debolezze (la droga) e i loro vizi (il fumo, il porno, il budino alla vaniglia), accompagnati per mano verso inaspettate grandezze.
A dare volto, muscoli e ossa ad Enzo e Loris sono Claudio Santamaria e Stefano Accorsi, per un curioso gioco del destino i due amici de L'ultimo bacio che 15 anni dopo si ritrovano a riscrivere pagine di un cinema tutto nuovo. Se Veloce come il vento e Lo chiamavano Jeeg Robot hanno un respiro internazionale è anche per la scelta insolita di basarsi su due prove attoriali fisiche. I chili presi da Santamaria servono a imbolsire un eroe involontario, rendendolo massiccio e iconico; quelli persi da Accorsi accentuano un malessere logorante. Così dei problemi di cuore di questi due vecchi trentenni, oggi rimane qualcosa di molto più profondo, come togliersi finalmente una vecchia polsiera o abbracciare una madre spaventata. Due gesti normali, ma non per loro. Non per Enzo e Loris.
Leggi anche: Veloce come il vento, Matteo Rovere: "Volevo raccontare due fratelli che si ritrovano"
4. Talenti imprevisti
Non solo divi nostrani rivoluzionati nell'aspetto e risistemati nell'immaginario, ma anche due assolute sorprese scovate in luoghi impensabili. Lo chiamavano Jeeg Robot e Veloce come il vento si reggono sulle spalle fragili di Ilenia Pastorelli e sul "collo da colibrì" di Matilda De Angelis (il cui volto paffuto ricorda non poco Jennifer Lawrence), grazie a due personaggi difficili da dimenticare. I loro son due esordi notevoli dovuti all'intuizione di chi ha intravisto in una volenterosa concorrente di un reality (Pastorelli) e in una giovane cantante da poco approdata in televisione (De Angelis) delle scommesse da vincere.
Basta ripensare alla tenera svagatezza di Alessia, rimasta rinchiusa in una spessa bolla di infantilismo per proteggersi da una realtà che l'ha sempre maltrattata, oppure alla forza d'animo di Giulia, ragazza subito donna, costretta bruciare tappe di vita e di età prima di ogni classifica. Donne umane, perché dotate di debolezze e tanta forza, quasi in antitesi; con Alessia imbrigliata in un età che non ha più e Giulia obbligata a diventare presto più grande, più forte, a fare da collante per una famiglia intera. Entrambe rispondono al talento spontaneo di due attrici magnetiche che aspettiamo soltanto di rivedere molto presto.
Leggi anche: Veloce come il vento, Accorsi e De Angelis: "I nostri personaggi in bilico tra la vita e la morte"
5. Il mezzo è il messaggio
Se il contenuto è profondo e significativo, anche la forma non è da meno. Una cura tecnica capace di elevare la drammaticità attraverso lo spettacolo della messa in scena, basata su una grande cura per ogni dettaglio estetico. Mainetti e Rovere gestiscono con brillante fermezza la loro regia, dosando con equilibrio scene dinamiche e dialoghi, corse e frenate sui personaggi. Montaggio, fotografia e scenografia poi contribuiscono a confezionare due film tecnicamente ineccepibili, agevolati da colonne sonore evocative quanto aggressive. E a proposito di "confezione" è il caso di soffermarsi sulla comunicazione delle due pellicole, svelate e pubblicizzate a suon di teaser trailer, character poster e un massiccio utilizzo dei social newtwork. Insomma, una campagna marketing molto esterofila e in linea con le grandi produzioni americane. Al di là delle locandine però, quello che conta davvero è l'entusiasmo del pubblico, un'euforia che si è tradotta in un sano passaparola confermato da incassi crescenti settimana dopo settimana, fan art, fumetti, cosplayer nelle fiere; ovvero l'inedita capacità di entrare nell'immaginario nazionale. In attesa di nuovi sussulti, per meravigliarci ancora, senza gridare al miracolo.
Leggi anche: Cuore, carta e acciaio: Lo chiamavano Jeeg Robot diventa un fumetto