Cuore, carta e acciaio: Lo chiamavano Jeeg Robot diventa un fumetto

Qualche giorno prima dell'uscita cinematografica, arriva in edicola un breve episodio dedicato alle gesta di Enzo Ceccotti. Un sequel ambientato dopo i fatti raccontanti nel film che si sofferma sulle ripercussioni sociali dovute all'avvento di un supereroe italiano.

Un film italiano sui supereroi che nel titolo richiama una famosa commedia western, citando pure uno dei più celebri mecha nipponici di sempre. A raccontarla così, Lo chiamavano Jeeg Robot sembra un calderone confuso di immaginari, un ibrido fatto di richiami impossibili da conciliare. E invece Gabriele Mainetti e soci hanno avuto le idee chiare, confezionando un'opera prima sorprendente per il panorama cinematografico in cui nasce (il nostro) e assai valida per l'approccio con cui affronta diverse tematiche attuali: il fanatismo della popolarità, le derive dell'egoismo e un amore delicato da gestire.

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Ma Lo chiamavano Jeeg Robot è un film significativo proprio perché non è un film di supereroi, ma un film sui superpoteri. Lontana da una narrazione eroica affidata a paladini esemplari, la storia segue i pesanti passi di un ladruncolo qualunque che per puro caso si ritrova addosso capacità fisiche straordinarie; un uomo solo, volutamente emarginato, di colpo posto di fronte alla possibilità dello straordinario dentro un quotidiano pieno di squallore. E a proposito di straordinario, quello che colpisce di questa pellicola non è soltanto il suo contenuto, ma la forma con la quale è stata concepita e pubblicizzata.

Lo chiamavano Jeeg Robot: Claudio Santamaria in una scena del film
Lo chiamavano Jeeg Robot: Claudio Santamaria in una scena del film

Per un film italiano sentir parlare di teaser trailer, character poster e di un progetto transmediale è, purtroppo, cosa rara e sorprendente, perché si tratta di termini solitamente destinati a grandi blockbuster hollywoodiani, del tutto estranei al cinema italiano. Quindi, eccoci qui a sorprenderci per il coraggio di un film che ha avuto l'ardire di essere persino un fumetto, di evadere dalla pellicola per fare visita anche all'arte sequenziale. Qualche giorno prima dell'arrivo in sala del film (in uscita il prossimo 25 febbraio), ecco arrivare in edicola Lo chiamavano Jeeg Robot, un sequel dei fatti raccontati da Mainetti, composto da 32 pagine a colori. Ai testi Roberto Recchioni, ai disegni Giorgio Pontrelli, ai colori Stefano Simeone. Incuriositi da questa formula editoriale, che di fatto rende un Lo chiamavano Jeeg Robot un cinecomic, abbiamo deciso di leggere il fumetto e raccontarvi l'esito di un esperimento narrativo insolito.

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Leggi, ragazzo, laggiù

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Quasi un anno e mezzo fa, Gabriele Salvatores aveva tentato un approccio simile pubblicando una mini-serie a fumetti ispirata al suo Il ragazzo invisibile. Una sperimentazione non memorabile, anche per demeriti del film stesso (anche in questo caso uscito dopo il fumetto) che ha seminato più perplessità che entusiasmo. Lontani anni luce dal punto di vista adolescienziale di Salvatores, Gabriele Mainetti, Nicola Guaglianone e Menotti si sono dedicati agli scarti della criminalità nostrana, in un racconto che parla romano ma ha il merito di essere universale e di non autoghettizzarsi nello sfacelo capitolino. Roberto Recchioni, fumettista incline al disincanto e attuale curatore di Dylan Dog, ha sempre mostrato entusiasmo nei confronti del progetto e, in accordo col regista, ha voluto espandere la storia del film, scrivendo questo sequel ambientato dopo i titoli di cosa di Lo chiamavano Jeeg Robot. Quello che emerge immediatamente dal fumetto non è tanto il suo contenuto, di cui parleremo tra poco, quanto la sua data d'uscita.

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Leggendo queste 32 tavole, fortemente caratterizzate dal tratto vibrante e personale di Pontrelli, si resta spiazzati dalla presenza di alcune sostanziali anticipazioni degli eventi narrati nella pellicola: personaggi che appaiono sotto "strane" sembianze, verbi declinati al passato, assenze significative. Siamo i primi ad essere allergici a questo delirio collettivo meglio noto come "fobia da spoiler", ma se l'editoriale del fumetto si intitola "No, non ci sono spoiler" è davvero difficile non ritenere beffardo il contenuto delle tavole. Detto questo, il nostro consiglio è quello di leggere l'albo dopo essere andati a cinema, forse il modo migliore per apprezzare l'intento degli autori. Qualora lo leggiate prima, non solo potreste incappare in spiacevoli rivelazioni, ma non riuscireste a cogliere al meglio il senso di queste brevi ma dense 32 pagine; dove molti aspetti sono accennati e molto è dato per scontato. Insomma, questo fumetto non servirà a farvi venire l'acquolina, ma è destinato a farvi digerire il film.

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Digestione pubblica

Lo chiamavano Jeeg Robot: Claudio Santamaria e Ilenia Pastorelli in una scena del film
Lo chiamavano Jeeg Robot: Claudio Santamaria e Ilenia Pastorelli in una scena del film

Liberi da questo fardello, possiamo dedicarci ad un sequel cartaceo che conferma l'abilità di Recchioni nel gestire la dimensione pubblica dell'eroe. Imparando la lezione di Alan Moore e di Frank Miller, l'autore si dedica alla scrittura di un racconto sui supereroi, e non di supereroi. Come già fatto in parte nella serie di Orfani, al centro dell'attenzione ci sono i mass media e l'adozione collettiva di una figura controversa come quella di un eroe riluttante. Vediamo così come gli italiani reagirebbero davanti alla scoperta di una figura straniante e allo stesso affascinante come quella di Enzo Ceccotti, l'imbolsito e solitario paladino di Tor Bella Monaca.

Lo chiamavano Jeeg Robot: Claudio Santamaria in un'inquadratura del film
Lo chiamavano Jeeg Robot: Claudio Santamaria in un'inquadratura del film
Lo chiamavano Jeeg Robot: Luca Marinelli in una scena del film
Lo chiamavano Jeeg Robot: Luca Marinelli in una scena del film

Tra meme, bacheche, messaggi WhatsApp e notiziari, "l'eroe dello Stadio Olimpico" è banalizzato dai salotti televisivi, imitato da fanatici, criticato dai più scettici. Ma ad Enzo poco importa di tutto e di tutti. Perché lui è un orso solitario, un uomo di poche parole che appare persino involuto rispetto a quello intravisto alla fine del film. L'unico capace di insinuarsi per qualche attimo sotto questa corazza di grasso e muscoli è lo Zingaro, criminale afflitto da manie di grandezza, ossessionato dal sogno delirante di essere qualcuno da ammirare, prima che da temere. Ed è proprio la melliflua figura dell'antagonista, che grazie alla grande interpretazione di Luca Marinelli nel film appare come una fusione tra il Joker di Heath Ledger e il Loki di Tom Hiddleston, ad esaltare la morale scelta anche da Recchioni; una morale che, visti i limiti di spazio, pone l'accento soltanto su uno dei tanti temi sollevati da Lo chiamavano Jeeg Robot: la mania della popolarità. Qui ritroviamo un protagonista incapace di essere qualcuno e un villain tormentato dal bisogno di visibilità. Una differenza abissale capace di segnare un solco profondo tra i due personaggi. E se i veri eroi di oggi fosseri quelli che rinunciano alla sovraesposizione di se stessi? E se oggi riuscire a sottrarsi al dominio dell'ego fosse la vera, grande impresa? Le visualizzazioni, i like e i selfie, forse, valgono come indizio. E anche come risposta.

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Il peso di una copertina

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Coerente con il sapore amaro del film, con il modo di esprimersi dei personaggi (ora sintetici, ora logorroici) e con una visione critica delle relazioni contemporanee, il fumetto Lo chiamavano Jeeg Robot è un gradevole e rapido passatempo post-visione, un modo per ribadire gli intenti allarmisti poi approfonditi sul grande schermo. Una volta chiuso l'albo, si ha voglia di qualcosa di più, di andare oltre, di capire meglio. Il che è un bene e un male allo stesso tempo. Qualora rimanga una pubblicazione isolata, non serializzata, bisognerebbe porre l'accento più sull'operazione che sull'opera, soprattutto alla luce di quanto scritto da Gabriele Mainetti alla fine dell'albo. Perché chi vuole proporre un certo tipo di cinema in Italia deve fare i conti con ostacoli produttivi e una creatività spesso frustrata dalla fattibilità.

Impossibile quindi non invidiare le potenzialità infinite e libere del fumetto, un linguaggio visivo e narrativo svincolato dagli argini che opprimono il cinema. Proprio in nome di questo speriamo che la traduzione fumettistica non sia solo occasionale ma l'inizio di qualcosa, anche perché questo scorbutico Enzo Ceccotti sembra avere tutte le carte in regola per diventare un credibile eroe di carta: una presenza scenica solida e corpulenta, battute efficaci, un pragmatismo cinico e disilluso molto in linea con gli antieroi odierni. Una propensione iconica confermata anche dalle quattro copertine variant con cui è stato presentato il fumetto, affidate a quattro matite importanti, ognuna delle quali ha saputo cogliere una sfumatura diversa dell'immaginario narrato: il contesto urbano (Roberto Recchioni), la fondamentale complicità femminile (Giacomo Bevilacqua), l'irrompere degli anime (Leo Ortolani) e il valore di un semplice costume fatto a mano (Zerocalcare).
Tutte cose che troverete al cinema tra qualche giorno, ma il fumetto leggetelo dopo, altrimenti Enzo si arrabbia.