Recensione J. Edgar (2011)

Illuminato dallo sguardo complice e sofferto di Eastwood su un carattere troppo complesso per poter essere ingabbiato da schematizzazioni ideologiche, J. Edgar vede Leonardo DiCaprio compiere un'operazione attoriale mastodontica, dando volto al personaggio per un cinquantennio della sua vita.

Un mastino solitario

Due anni dopo Invictus (e ventitré dopo il semidimenticato Bird) Clint Eastwood torna a dirigere una biografia filmata. Questa non sarebbe in sé una gran notizia, visto che un'anima biografica, spesso autobiografica o comunque di attenzione peculiare verso il vissuto dei suoi personaggi, è sempre stata presente nel cinema del regista statunitense: ma, quando il soggetto della rappresentazione è uno dei personaggi più controversi della storia americana, implacabile nemico del crimine quanto "mastino" insofferente alle limitazioni imposte dai diritti civili, padre padrone dell'FBI sempre sotto i riflettori nella sua dimensione pubblica, quanto misterioso e schivo nel privato, la curiosità non può che aumentare esponenzialmente. Ha fatto bene, il vecchio Clint, ad aspettare questa fase della sua carriera, i riconoscimenti e il definitivo sdoganamento da parte della critica più (pseudo)progressista, per dedicarsi a un soggetto come quello di questo J. Edgar: sono lontani i tempi delle accuse di criptofascismo verso il suo cinema, lontana l'ottusità di certi ambienti che anteponevano i teoremi critico-ideologici all'obiettiva visione di un'opera; lontani gli anni '70 e '80 e la figura del suo monolitico giustiziere, liricamente salutata e consegnata alla storia dal suo Gran Torino. Partendo da uno script di Dustin Lance Black, che già aveva esplorato a fondo un personaggio-simbolo e il suo impatto sulla società con la sceneggiatura di Milk, il film dedicato alla vita di John Edgar Hoover può così prendere forma, illuminato dallo sguardo complice e sofferto di Eastwood su un carattere troppo complesso per poter essere ingabbiato da schematizzazioni ideologiche, e da un Leonardo DiCaprio che compie qui un'opera attoriale mastodontica: prestando il suo volto a un personaggio durante un cinquantennio della sua vita, da quando, poco più che ventenne, era un giovane ed ambizioso ufficiale di una polizia federale molto diversa da quella che conosciamo oggi, fino alla sua morte arrivata all'età di 77 anni.


La sceneggiatura di Black sceglie di narrare la vita di Hoover muovendosi tra piani temporali diversi, presentando a inizio film un direttore del Bureau anziano, stanco e sotto costante attacco dei media (e di alcuni avversari interni, come il futuro senatore Bob Kennedy) che racconta in forma dattiloscritta la sua vicenda personale e politica, convinto che gli americani abbiano ormai perso la memoria storica delle minacce a cui sono stati sottoposti. Assistiamo così agli inizi della carriera di J. Edgar e alla sua vorticosa ascesa ai vertici del Bureau, alla sua spietata lotta contro i comunisti (da lui considerati alla stregua di terroristi) e alle sue innovative idee nel campo dei metodi di indagine, che porteranno a una rivoluzione all'interno dello stesso corpo federale. Lo script si concentra da subito sul contrasto tra il privato del personaggio e la sua dimensione pubblica di astro nascente della lotta al crimine: all'evidente gusto per le luci della ribalta, alla brillante immagine di giovane innovatore prima, e di integerrimo difensore dell'ordine pubblico poi, si contrappone una dimensione privata complessa, schiacciata da un palese stato di succubanza nei confronti di una madre (una straordinaria Judi Dench) dalle soffocanti aspettative; oltre che da costanti complessi di inferiorità, tra cui quello sulla statura, che si fanno sentire in modo determinante quando i riflettori si spengono, arrivando a logorare sempre di più lo stato mentale dell'uomo. In questo, viene posto in evidenza il rapporto con due delle figure chiave della vita del personaggio: la segretaria Helen Gandy, interpretata da Naomi Watts, fedele custode dei segreti e dei dossier che lo stesso Hoover, negli anni, raccoglierà sul conto di nemici reali e presunti; e soprattutto il consigliere Clyde Tolson (un efficace Armie Hammer), amico personale e uomo forse più vicino in assoluto al direttore dell'FBI. E' proprio sul rapporto con queste tre figure, i due collaboratori e la madre di J. Edgar, che si snodano alcuni dei punti chiave del film: la presenza dell'anziana donna come guida discreta ma inflessibile e dispotica, la costante ricerca da parte del protagonista della sua approvazione, il dolore e lo smarrimento alla sua scomparsa; la convinta dedizione della segretaria, e la sua scelta di sacrificare, in nome del lavoro, tutti gli affetti e forse un'attrazione per lo stesso Hoover; il complesso rapporto con Tolson e l'emergere del suo carattere (sempre meno) latentemente omosessuale.

E' su quest'ultimo aspetto che la sceneggiatura osa e rischia di più, azzardando una risposta alle tante voci succedutesi nel corso degli anni sul rapporto tra i due personaggi, e conferendo ad esso una dimensione di costante privazione e repressione che trasmette un'umanità, e una credibilità, che non possono non toccare. La regia di Eastwood, caratterizzata dalla consueta essenzialità (che non esclude l'attenzione per i dettagli) entra quasi con pudore nel privato del rapporto tra i due personaggi, ne restituisce con sempre maggior convinzione la sofferenza, innalza abilmente la temperatura emotiva della storia mettendo lentamente a nudo la realtà di una relazione non solo inconfessabile, ma addirittura inimmaginabile per i suoi stessi protagonisti. Più in generale, nell'alternanza tra passato e presente che caratterizza lo script, la narrazione scivola sempre più verso il privato del personaggio, progressivamente spogliato della corazza che lui stesso si era costruito e che poi, attraverso il racconto in prima persona della sua storia, contribuisce suo malgrado ad abbattere. E' solo apparente la freddezza che il film sembra trasmettere nella sua prima parte, quasi una maschera che lo stesso Eastwood, imitando il suo protagonista, sceglie di porre sulla vicenda: mentre un appesantito e invecchiato DiCaprio detta la sua storia al suo collaboratore, alterando e mistificando la realtà, distorcendo episodi chiave della sua carriera e cercando di rinverdire un'immagine ormai sbiadita, emergono inevitabilmente, nel presente come nel passato, le debolezze e le idiosincrasie, le ossessioni e la sostanziale solitudine, unite all'inesausta convinzione di stare operando, nonostante tutto, per il bene del suo paese. Un racconto che da collettivo diviene sempre più personale e intimo, che restituisce un cinquantennio di storia americana attraverso gli occhi di uno dei suoi protagonisti: occhi il cui sguardo si fa sempre più limpido, spostandosi dall'esterno verso l'interno, arrivando a scandagliare alla fine, suo malgrado ma con un un'onestà totale, il suo stesso animo. Uno sguardo che si sovrappone a quello del regista, e al percorso compiuto dal suo cinema: una riflessione sempre più sofferta sul sogno americano, ma soprattutto sul suo significato per i singoli individui e per il loro vissuto. Una storia non ancora conclusasi, e di cui questo J. Edgar rappresenta l'ennesimo, importante, tassello.

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4.0/5