Recensione The Coast Guard (2002)

Per la prima volta Kim Ki-duk sceglie esplicitamente di indicare la frattura interna al proprio paese come causa principale del malessere che consuma i suoi personaggi e della conseguente brutalità che da esso ha origine.

Un'anima divisa in due

Un lento ed inesorabile declino nella follia, volto a sondare il limite di crudeltà che l'essere umano può raggiungere. Il film di Kim Ki-duk è raggelante nella sua imprevedibilità, le tragedie si susseguono una dopo l'altra senza soluzione di continuità. Teatro dell'orrore, uno dei tanti villaggi di pescatori sud-coreani posti all'altezza del 38° parallelo dove le spiagge sono delimitate dal filo spinato, che marca il confine con la Corea del Nord, e rigidamente sorvegliate dai corpi speciali dell'esercito. Per la prima volta Kim Ki-duk sceglie esplicitamente di indicare la frattura interna al proprio paese come causa principale del malessere che consuma i suoi personaggi e della conseguente brutalità che da esso ha origine. Le immagini di questa Corea spezzata in due, martoriata dalla guerra e soffocata dalla brutalità militare, in The Coast Guard si cristallizzano nella bellissima fotografia, gelida ed impietosa, del quasi esordiente Baek Dong-hyeon, con immagini di straordinaria eleganza, una per tutte, il ring immerso nell'acqua con le corde sostituite dal filo spinato all'interno del quale si allenano i soldati.

Protagonista della vicenda è il caporale Kang, un militare che esercita il proprio mestiere con dedizione maniacale, il quale, durante un turno di notte, uccide per sbaglio un giovane del luogo che si era appartato sulla spiaggia insieme alla propria fidanzata. Sia Kang, che ha ucciso involontariamente un civile, sia la ragazza, che ha assistito al brutale omicidio, sprofondano nella follia più assoluta, generando un crescendo di odio e violenza che porterà allo sconvolgimento della vita del villaggio e del distaccamento militare.
Kim Ki-duk analizza impietosamente gli stati mentali dei suoi due protagonisti, entrambi estremamente convincenti in ruoli tutt'altro che semplici: Park Ji-a si muove in un teatro di guerra (le ostilità tra i militari e gli abitanti del villaggio, in particolare il fratello della ragazza) con la grazia e la folle fissità di un'Ofelia violata, cercando disperatamente in tutti coloro che incontra l'amore che gli è stato strappato brutalmente sotto gli occhi; quanto al protagonista, Jang Dong-kun, affermata star coreana, offre una performance di assoluto spessore, liberando progressivamente la sofferenza compressa nella scoperta della morte che lui stesso ha causato in una ferocia incontrollabile.
La rappresentazione della vita quotidiana nella base militare risente, senza dubbio, dell'esperienza autobiografica dello stesso regista, che ha trascorso cinque anni nei corpi speciali dell'esercito sud-coreano come sottoufficiale. Se all'inizio della pellicola la ridicolizzazione del rigido codice di comportamento a cui i soldati devono adempiere sembra quasi suggerire che il loro ruolo è ormai privo di significato, che ogni pericolo di un conflitto è ormai lontano, basta un involontario incidente per far esplodere la polveriera di rancori, rabbia e dolore che da decenni tormenta il popolo coreano.

Criticato da molti per l'eccesso di crudeltà, che in The Coast Guard raggiunge livelli quasi insopportabili (l'aborto praticato dall'ufficiale medico di notte sotto la pioggia senza anestetico), Kim Ki-duk inaugura in realtà una forma di violenza "metafisica", dove quegli eccessi che possono mettere in discussione la verosimiglianza della vicenda diventano archetipi simbolici del dramma di una nazione, del malessere esistenziale che coinvolge inesorabilmente tutti i personaggi e che, in questa pellicola, culmina in un finale totalmente privo di luce che congela lo sguardo dello spettatore in un ultimo feroce colpo di scena.

Movieplayer.it

3.0/5