Era un freddo venerdì autunnale, era venerdì 19 novembre 1993 quando la Disney disse un altrettanto freddo ''no'' alla primordiale sceneggiatura che una piccola (quasi quanto una mela...) casa di animazione gli consegnò sul tavolo. Per loro, abituati alla magia di storie infinite, di personaggi (quasi) (im)perfetti, abituati all'empatia e ai colori, uno spocchioso cowboy di pezza che butta giù dalla finestra un astronauta di plastica era un'idea che mai e poi avrebbe potuto essere portata avanti. E così, quell'ometto (con un Oscar già in bacheca per il cortometraggio Tin Toy) dalla sgargiante camicia hawaiana se ne tornò, insieme alla squadra che da lì a due anni avrebbe scritto la storia, nella piccola ''bottega'' piena di enormi computer e disegni appesi al muro, rimboccandosi le mani e creando così i 116.640 fotogrammi finali che avrebbero formato il più importante ''cartone animato'' dai tempi di Biancaneve e i sette nani.
Quel venerdì però - ribattezzato, guarda caso, Black Friday Reel- servì al regista e ideatore (e genio) John Lasseter, al produttore Ed Catmull e agli altri sceneggiatori Joe Ranft, Pete Docter, Andrew Stanton, Joss Whedon e alla Pixar tutta, di tirare un sospiro, di cancellare la storia ideata fino a quel momento (ricordiamo, commissionata dalla stessa Disney, che aveva visto lungo sulle potenzialità di quegli Studios nati da una branca della LucasFilm e grazie alla mente visionaria di un certo Steve Jobs) e di riscriverla, basandola su un gruppo di giocattoli dal cuore d'oro - che prendono vita quando sono soli - in cui un sceriffo di stoffa, beniamino e miglior amico di un bambino, dovrà condividere il suo essere speciale con un nuovo arrivato: lo zelante Space Ranger tutto plastica ed adesivi, che si illumina, brilla di notte e... atterra con stile. Instaurando infine con il "nuovo giocattolo" una profonda e catartica amicizia. L'impensabile, quindi, era realtà: così nasce il capolavoro, così nasce Toy Story.
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Verso l'Infinito, e oltre!
Un capolavoro che, non si direbbe, ma ha appena compiuto vent'anni: uscito negli States il 22 novembre 1995 (il 19 ci fu la première a Los Angeles, due anni esatti dopo il Black Friday Reel), Toy Story, fortissimo del successo ottenuto in Patria (quasi 200milioni di dollari negli USA) e delle tre nomination agli Oscar (più la statuetta speciale consegnata dalle mani di Robin Williams a John Lasseter come riconoscimento per aver rivoluzionato il mondo dell'animazione e dell'animazione digitale) arrivò in Italia il 22 marzo 1996, mandando letteralmente in visibilio grandi e piccoli, affascinati da quella locandina (leggermente mutata negli anni, con l'espressione di Woody prima preoccupata e poi ammaliata) che, ancora oggi, fa bramare di possedere una cameretta con la carta da parati azzurra a nuvolette bianche, in cui i due protagonisti esprimono alla perfezione tutta l'enorme potenza visiva che gli spettatori avrebbero, fin dalla prima proiezione, amato incondizionatamente.
Toy Story, perciò, al pari dei grandissimi titoli che hanno lastricato la cinematografia mondiale, divenne, con il suo umorismo, le sue battute, il suo folgorante inizio (Mani in alto...) e le sue scene madri (un paio, su tutte: gli occhi di Buzz quando capisce che è ''solo un giocattolo'' e la planata, verso l'infinito e oltre, di Buzz e Woody), un gioiello di altissimo artigianato digitale. E, così come negli USA, anche da noi, abituati all'animazione tradizionale, fatta di disegni messi in serie, vedere quei colori e quei volti tridimensionali, fu per gli occhi di tutti uno stupore, una meraviglia. Un prodigio. I computer, che pian piano stavano entrando nel quotidiano, non erano solo oggetti enormi, grigi e costosissimi, ma erano stati in grado di dare anima, cuore ed emozione ad un manipolo di giocattoli che, a guardar bene, sono molto più umani degli umani.
In Italia, l'arrivo in sala di Toy Story diversi mesi dopo l'uscita in America (cosa simile avvenuta ultimamente con Inside Out), portò, oltre che la novità che rappresentava un lungometraggio del genere, pure una quantità enorme di merchandising, lanciando una vera e propria Toy Story-mania: giocattoli dei ''giocattoli'' protagonisti dalle svariate misure - per chi scrive, i cimeli che ancora custodisce sono un Woody di pezza ormai logoro e un Buzz ammaccato dagli anni, entrambi a ''grandezza naturale'' -, carte da gioco, album di figurine, libri, cover sui giornali più disparati (memorabili le copertine dedicate al film di TV, Sorrisi e Canzoni e Topolino) e, in più, innumerevoli ospitate in TV di Fabrizio Frizzi e Massimo Dapporto, (tutt'ora) doppiatori italiani di Woody e Buzz (nella versione USA, per chi non lo sapesse, sono doppiati rispettivamente da Tom Hanks e Tim Allen), divenute le ''voci'' più amate dai bambini nel 1996.
Senza dimenticare che la celebre "Hai un Amico in Me" di Riccardo Cocciante (in originale la colonna sonora è del grande Randy Newman) veniva fischiettata praticamente da tutti. Toy Story, nella stagione cinematografica italiana 1995-96, chiuse la sua marcia piazzandosi sopra a titoli come I laureati e 007 Goldeneye contando quasi un milione di spettatori (considerando che, all'epoca, le sale monitorate erano solo il 60%), per tornare qualche mese più tardi nella richiestissima (e ormai da collezione) VHS con un'inconsueta custodia bianca. Nel stagione 1995-1996, Toy Story incassò a livello globale quasi 400milioni di dollari, aprendo di fatto la strada ad una nuova animazione, targata Pixar, fatta di emozioni, splendide sceneggiature e abbagliante resa grafica.
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Con gli anni capirai, che siamo fratelli ormai
Perché Toy Story è stato (e, per certi versi, ancora lo è) così tanto importante per l'industria cinematografica mondiale? Semplicemente perché, in un momento storico delicatissimo come quello degli anni '90 (in cui il futuro, per la prima volta, si stava tangibilmente affacciando anche nell'arte), l'animazione si è resa conto che le classiche storie, gli arcinoti disegni al centro dei così detti Classici - rapportandoci alla Disney, ma potremmo anche citare la Warner Bros. dei Looney Toons, oppure Hanna e Barbera con Tom e Jerry - non potevano più bastare nell'era dei computer e dei calcolatori, dunque la stessa Disney, ancorata a certi cliché narrativi e visivi, si affidò (all'inizio doveva essere un tentativo, dato l'interesse suscitato dai corti Luxo Junior e Tin Toy) alla Pixar per il primo lungometraggio in computer grafica in cui, invece di un bambino, di una principessa o di un animale, a provare emozioni erano nientemeno che oggetti.
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Da qui, e in scia con il cortometraggio Tin Toy (1988), Lasseter e il suo team plasmarono (grazie al software d'animazione 3D RenderMan sviluppato dalla stessa Pixar) Woody, Buzz, Mr. Potato, Rex, Slinky, Hamm, Bo Peep e tutti gli altri personaggi del film, donandogli caratteristiche ben precise, sfumature, virtù e difetti, in cui il pubblico va irrimediabilmente a riconoscersi. E, far rispecchiare il pubblico in un oggetto all'apparenza inanimato, oppure riportandolo con la potenza dei ricordi all'infanzia e ai propri giocattoli, creandogli un tumulto di emozioni (anche dolorose, come solo certe emozioni legate ai ricordi sanno essere), non è una cosa semplice. Anzi. Eppure, Toy Story, a vent'anni dall'uscita in sala (con due sequel eccezionali, più un quarto titolo programmato che, probabilmente, non andrà a raccontare l'evoluzione dei personaggi dopo il terzo film, incentrandosi invece sulla storia d'amore tra Woody e la pastorella Bo Peep), oltre essere stato innovatore dal punto di vista realizzativo e narrativo, è divenuto anche estremamente generazionale: tutti quei nati sul finire degli anni '80 sono cresciuti come (e con) Andy e i suoi Woody e Buzz, vivendo con loro avventure, primi giorni di scuola e tappe fondamentali della vita. Ecco perché quella fine del terzo capitolo della saga, pur perfetta e delicata, che chiude un ciclo iniziato grazie alla fantasia di Andy nella sua cameretta, ad ogni visione, frantuma il cuore in mille pezzi. Per chi ha il coraggio di rivederla, ovvio.
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