Si sta rivelando un autunno molto impegnativo, per Tom Hanks. Reduce dal compimento dei suoi sessant'anni (li ha festeggiati il 9 luglio scorso), attualmente l'attore californiano è impegnato nel tour promozionale per Inferno, il terzo capitolo cinematografico basato sulle avventure del docente di simbologia Robert Langdon, protagonista dei best-seller di Dan Brown, da questa settimana al cinema per la regia di Ron Howard, mentre il mese prossimo a Torino approderà l'altra pellicola da lui interpretata quest'anno, Sully.
E proprio il dramma diretto da Clint Eastwood, la vera storia dell'impresa compiuta nel 2009 dal pilota d'aereo Chesley Sullenberger, dovrebbe riportare finalmente Tom Hanks in competizione agli Oscar, a ben sedici anni di distanza dalla sua ultima candidatura. Ma aspettando di rivederlo in quella che la critica d'oltreoceano ha definito una delle sue prove migliori di sempre, giovedì pomeriggio Tom Hanks è stato ospite dell'Auditorium per la giornata d'apertura dell'undicesima edizione della Festa del Film di Roma: l'occasione è il primo della consueta serie di incontri con il pubblico in calendario al Festival, ma anche l'assegnazione del premio alla carriera, che Hanks ha ricevuto dalle mani di Claudia Cardinale.
Ecco dunque il nostro resoconto della vivace conversazione fra il divo americano e il direttore artistico Antonio Monda: una conversazione nel corso della quale Hanks ha avuto modo di commentare alcuni dei suoi film più famosi, con l'ironia, l'umorismo e l'umiltà che da sempre lo contraddistinguono...
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Da Big a Clint Eastwood, l'uomo che sussurrava agli attori
Tom Hanks, uno dei tuoi primi successi è stato la commedia Big: ti diverti a recitare?
Da piccolo devi andare a scuola, è la legge, quindi non hai scelta! E l'unico modo per sopravvivere a scuola, soprattutto se non sei particolarmente bravo, è ridere il più possibile. Non che ci fosse molto da divertirsi, con tutte quelle materie da studiare, fra cui l'inglese, che non parlo molto bene... ma poi durante il liceo ho scoperto l'esistenza dei corsi di recitazione: c'era addirittura un'aula con un palcoscenico, e ho pensato che ci fosse qualche trucco, non poteva essere vero. Era un corso molto divertente in cui ho preso il massimo dei voti.
Cosa puoi raccontarci invece di Insonnia d'amore?
Tutti dicevano che io e Meg Ryan eravamo grandiosi nel film, ma in realtà abbiamo girato insieme un'unica scena! Nora Ephron aveva iniziato la sua carriera come giornalista, prima di diventare commediografa, e il giornalismo è rimasto il suo modo di vedere il mondo: rappresentare la realtà scegliendo le parole migliori per descriverla. Il suo desiderio è sempre stato quello di scrivere per il palcoscenico, e infatti sia in Insonnia d'amore sia in C'è posta per te abbiamo provato moltissimo ogni singola scena, come se fossero degli spettacoli teatrali.
Come mai hai scelto anche di dirigere, debuttando alla regia con Music Graffiti?
La ragione per cui ho diretto Music Graffiti è perché amo quel periodo e volevo capire cosa accadesse alle meteore del mondo del rock. Le rockband sembrano gruppi di persone che si vogliono bene e a cui piace vivere insieme, ma invece io ho conosciuto molte rockband i cui componenti si odiano. Penso anche che ogni attore dovrebbe dirigere, perché i registi sanno assumersi la responsabilità di narrare una storia per cui provano passione; e penso che, allo stesso modo, tutti i registi dovrebbero provare a recitare, in modo da capire tutti quanti l'uno il lavoro dell'altro.
Di recente hai lavorato con un altro attore/regista, Clint Eastwood: cosa puoi dirci di lui?
Tutti i registi con cui ho lavorato, o quasi, prima facevano gli sceneggiatori o i montatori, come Robert Zemeckis e Frank Darabont. Clint ha fatto il regista per la prima volta con Brivido nella notte, un film molto efficace e inquietante, ed essendo anche un attore conosce tutti i nostri possibili errori. Clint in effetti tratta i propri attori come fossero cavalli, perché sa che quando i registi gridano "Azione!" spaventano gli attori, li fanno imbizzarrire come cavalli; lui, invece, sul set ci dà istruzioni sussurrando, così da non spaventare gli attori e non farci comportare come cavalli!
I colleghi di set, da Philip Seymour Hoffman a Steven Spielberg
Ne La guerra di Charlie Wilson hai recitato accanto a Philip Seymour Hoffman: qual era il segreto della sua grandezza?
È stata una perdita enorme. Il cinema è un mistero, e non sappiamo come mai fosse così bravo. Un grande artista non mostra mai il processo alla base del proprio lavoro: lui semplicemente diventava il suo personaggio, lui era Gust Avrakotos. Era una persona molto affabile, ma in qualche modo era anche posseduto dal personaggio, e sul set non incontrava mai la minima difficoltà. Quei tre giorni con lui sul set sono stati divertentissimi e mi hanno dato un'enorme energia, perché ho lavorato con persone straordinarie.
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Cosa hai imparato invece da Steven Spielberg, con cui hai lavorato a diversi film?
Steven Spielberg vede il mondo in termini cinematografici, e comunica nella stessa modalità. Il fatto che lui visualizzi ogni scena della storia aiuta moltissimo noi attori, perché già carica ogni sequenza di significati ulteriori grazie alla sua messa in scena, con una varietà di inquadrature che trasmettono un flusso di emozioni. In Prova a prendermi, con Leonardo DiCaprio ci è bastato sederci al tavolo e parlare al telefono l'uno con l'altro. Frank Abagnale e Carl Hanratty hanno una visione perfetta l'uno dell'altro: entrambi hanno capito chi hanno di fronte. E poi è stato bellissimo lavorare con Leo.
Un altro film che hai girato con Spielberg è Salvate il soldato Ryan: vi siete posti l'obiettivo di celebrare la storia dell'America?
Penso che ci interessasse di più esaminare l'elemento umano. Non voglio parlare per Steven, ma credo che si ritorni a questi periodi storici perché si tratta di un'epoca quasi mitica, su cui è stato scritto molto: un'epoca in cui il mondo intero, per cinque anni, è rimasto paralizzato, ed è stato necessario dedicarsi a risolvere questa crisi terribile. Il governo e la politica hanno dovuto adoperarsi in tal senso, ma è stato necessario che singoli individui, per cinque anni della loro vita, accettassero di vivere in uno stato precario, senza sapere quanto ancora la guerra sarebbe durata: ma questo non ha interrotto i loro sforzi e il loro senso di responsabilità nel voler risolvere tale crisi. Gran parte del mondo ha reagito così, e questa era l'idea che volevamo trasmettere attraverso il film: la Storia procede a ritmo lento, e per risolvere le crisi è necessario il contributo di tutte le persone disposte ad impegnarsi in tal senso.
Le performance più celebri
È stato difficile realizzare un film come Cast Away?
Innanzitutto, ci sono voluti cinque anni per trovare il terzo atto della storia. I primi due atti erano già perfetti così com'erano, con l'incidente e il resto, ma ci mancava il terzo atto. Poi ci siamo resi conto che nella vita ci vogliono cinque cose per sopravvivere: cibo, acqua, fuoco, un riparo e l'amicizia. L'amicizia, dunque, sarebbe stata il fulcro del terzo atto. All'inizio con Bob avevamo pensato di costruire uno spaventapasseri come amico del protagonista, ma Bob ha pensato che questo amico dovesse essere qualcosa che faceva parte del personaggio... come la sua mano. L'altra necessità per la storia era che io girassi la prima parte da uomo grasso e la seconda parte da uomo magrissimo, per cui tra una metà e l'altra del film ho dovuto perdere peso; e nel frattempo, Bob ne ha approfittato per girare Le verità nascoste con la stessa troupe, mentre io mi occupavo di ingrassare.
Cosa ti ha affascinato invece di Forrest Gump?
Una sceneggiatura di solito dura centoventi pagine, ma in quel caso il copione ne aveva centosettanta! Ci siamo riuniti con Bob e gli altri attori in North Carolina per quattro settimane per affrontare queste centosettanta pagine nelle prove. Quello che mi ha attratto di questa storia, che riflette la storia della mia generazione, è come sopravvivere grazie al buonsenso appreso dalla madre di Forrest. Se la tua unica regola è di fare sempre la cosa giusta, questo ti permette di superare anche momenti difficili come il Vietnam.
Infine, in Philadelphia, come sei riuscito a realizzare una scena così emozionante come quella con la musica de La mamma morta?
Devo ammetterlo, era già tutto in Andrea Chénier. Il potere di quella scena deriva da due persone: Maria Callas e Denzel Washington. Andrew sta morendo di AIDS e descrive un'aria da cui ha appreso come dalla sofferenza provenga l'amore, come ci ha insegnato anche la Callas. Il mio italiano era sufficiente da permettermi di comprendere le parole della Callas, e di comprendere come l'arte ci permetta di catturare la vita. Abbiamo girato quella scena alle quattro di mattina, ma incappammo in una difficoltà tecnica per il sonoro in presa diretta: non puoi registrare tenendo la musica lirica in funzione, quindi l'aria avrebbe dovuto essere continuamente interrotta, e non potevo neppure indossare degli auricolari. Allora Jonathan Demme ha avuto l'idea di aumentare il volume al massimo e di girare la scena a più riprese, mentre io traducevo man mano quello che ascoltavo a Denzel: così abbiamo girato questa scena nell'arco di due ore, in presa diretta.