E mi dispiace anche per Ahab, perché è convinto che la sua vita migliorerà se riuscirà a uccidere questa balena. Ma in realtà, non gli servirà a niente. Questo libro mi ha fatto pensare alla mia vita.
In apertura della sua recensione di The Whale per le colonne del sito The Playlist, Jack King sottolinea un elemento fondamentale legato alla ricezione del film: "Pur arrivando quando quasi chiunque su Twitter è fermamente sul carro della Brendanaissance, ecco un film predisposto a suscitare un vortice di discorsi in malafede: sarà definito crudele, sarà definito ricattatorio, sarà denunciato come offensivo". Non si trattava certo di una previsione azzardata, soprattutto considerando l'accoglienza a cui di solito vanno incontro le opere di Darren Aronofsky; eppure è interessante evidenziare la dicotomia fra la cosiddetta Brendanaissance, neologismo diffuso fra i social media sull'onda di altri fenomeni analoghi, e le critiche negative che The Whale ha attirato su di sé fin dalla sua presentazione, all'inizio di settembre, nel concorso della Mostra di Venezia 2022.
Partiamo dal primo aspetto, ormai ben noto a chiunque segua anche solo in minima misura le cronache cinematografiche: il 2022 è stato l'anno della rinascita professionale di Brendan Fraser, ex-volto simbolo delle commedie d'azione a cavallo fra vecchio e nuovo millennio (in primis la fortunatissima saga de La mummia), ma la cui popolarità aveva subito un sostanziale declino nello scorso decennio, complici pure alcuni problemi personali e fisici. Tuttavia, alla soglia dei cinquantaquattro anni, l'attore canadese è tornato di colpo sulla cresta dell'onda grazie a uno di quei ruoli che valgono davvero un'intera carriera: Charlie, insegnante di letteratura affetto da una grave obesità e condannatosi a un'auto-reclusione nella propria casa in Idaho, da dove tiene lezioni in video-conferenza con la webcam rigorosamente spenta.
Dietro lo schermo: la prova da Oscar di Brendan Fraser
Non a caso è un rettangolo nero sullo schermo di un computer l'immagine che scandisce il nostro primo incontro con Charlie: la 'maschera' di un uomo che si sente sconfitto da un'esistenza non certo priva di difficoltà e di dolori, fra cui la morte del suo ex-compagno Alan e la rottura con la figlia adolescente Ellie (Sadie Sink). Insomma, una figura decisamente agli antipodi rispetto alla tipologia di personaggi a cui Brendan Fraser ci aveva abituato in passato; e l'attore si immerge nella parte di Charlie con un'intensità e un pathos in grado di conquistare praticamente tutti. Non stupisce insomma il plebiscito per la sua interpretazione, accolta da elogi pressoché unanimi da parte della critica e ricompensata da una valanga di riconoscimenti, inclusi lo Screen Actors Guild Award e la nomination all'Oscar come miglior attore, premio per il quale è l'attuale favorito.
Ma al di là delle lodi per la performance di Fraser, e senz'altro in gran parte per merito di essa, il film di Darren Aronofsky sembra essere riuscito a toccare con forza la sensibilità del pubblico: ce ne danno conferma i numerosi esempi di commozione visibili all'interno delle sale, ma ancor di più le cifre registrate da un'opera dura e claustrofobica, che non nasce affatto come un crowdpleaser. In un periodo tutt'altro che favorevole, in termini commerciali, per la maggior parte dei consueti "titoli da Oscar", The Whale ha incassato finora oltre sedici milioni di dollari al box-office USA: un risultato ragguardevole, a un passo dai diciassette milioni di The Fabelmans di Steven Spielberg e di gran lunga superiore rispetto ai dieci milioni de Gli spiriti dell'isola, ai sei milioni e mezzo di Tár e ai quattro milioni e mezzo di Women Talking e Triangle of Sadness.
The Whale, la recensione: un Brendan Fraser straordinario in un film che colpisce al cuore
Emozione o exploitation?
Eppure, se la prova di Brendan Fraser ha messo d'accordo più o meno tutti, non altrettanto si può dire per la pellicola nel suo complesso, che accanto alle recensioni positive ha collezionato diversi pareri assai più 'freddi' e un'ampia dose di stroncature. Stroncature che, in generale, convergono su determinati elementi di The Whale e sul modo in cui Darren Aronofsky, regista che non è mai andato troppo per il sottile, porta in primissimo piano la dimensione tragica di Charlie; a partire, sul piano visivo, dalla sua stazza gigantesca. "[...] potreste trovarli in un grottesco contrasto: il personaggio di cui ogni gemito, rantolo e crisi di soffocamento serve a ispirare al contempo empatia e repulsione, e l'attore i cui sudati sforzi drammatici sono calcolati per suscitare lodi e applausi", scrive Justin Chang sul Los Angeles Times; "Questo scrutinio nudo e crudo di un argomento difficile verte all'esagerazione, perfino all'exploitation? Se siamo disgustati da quel che Aronofsky ci mostra, è colpa nostra o sua?".
Su Rolling Stone, David Fear osserva che "The Whale sembra determinato a farti vedere Charlie in modo grottesco. C'è qualcosa di mostruoso nel modo in cui continua a inquadrarlo, come sembra quasi feticizzare ogni rotolo della sua carne". Giudizi ancor più severi e recisi si possono rintracciare su altre testate internazionali, ma pure fra i commenti di tanti appassionati, nettamente contrapposti ai pur molteplici consensi; e sebbene le reazioni opposte non siano affatto una rarità nel panorama critico, perché The Whale ha polarizzato a tal punto le opinioni? L'impressione è che, nella sacrosanta pluralità delle esegesi e dei punti di vista, a fomentare gli strali dei detrattori sia stato in particolare l'approccio adottato da Aronofsky e dallo sceneggiatore Samuel D. Hunter, già autore dell'omonima pièce teatrale: la rinuncia ai toni sommessi e ai sottintesi per puntare, al contrario, sulle tinte accese del melodramma.
The Whale di Darren Aronofsky è un'esperienza fisica
Abbiamo un problema con il melodramma?
Per restare nell'ambito dell'awards season: The Whale non possiede la finezza di scrittura de Gli spiriti dell'isola, l'eleganza classica e avvolgente di The Fabelmans, né la complessità e il fascino autoriale di Tár. È invece un film che rende espliciti motivazioni e conflitti dei personaggi, che ne mette a nudo le fragilità e il senso di vergogna, e che punta a parlare al pubblico nella maniera più diretta possibile; inclusa la scelta di utilizzare Moby Dick (fin dal titolo) come un riferimento letterario dai facili richiami metaforici. In altre parole, usando un'espressione magari antipatica, ma eloquente: è un "film per tutti", che parla con il linguaggio del melodramma e pertanto non esita a premere sul pedale delle emozioni. Questo non significa che sia un film perfetto (non lo è), ma non lo rende necessariamente un film ricattatorio, né tantomeno implica che le scelte di Aronofsky equivalgano a una "pornografia del dolore".
Se in ogni caso ben venga un dibattito capace di ispirare domande e riflessioni, resta la sensazione che certi pareri lapidari su The Whale siano legati, almeno in parte, a un eterno pregiudizio nei confronti del melodramma; soprattutto quando un'opera appare così enfatica, poderosa, a tratti addirittura eccessiva (ma eccessivo il mélo lo è per definizione), e quando a cimentarsi con questo genere sono cineasti non (ancora) entrati pienamente nel canone. Con il rischio di sottovalutare un film che ha l'indubbio merito di aver saputo coinvolgere in profondità una larga fascia di spettatori, raccontando il collasso fisico e, in parallelo, l'ultimo tentativo di riscatto morale del suo protagonista: un individuo prigioniero dei propri spettri, prima ancora che del proprio corpo, ma ciò nonostante aggrappato a un contagioso umanesimo e a un'incrollabile fiducia nel fatto che, in fondo, "le persone siano incapaci di non amare".
Darren Aronofsky e Brendan Fraser: "The Whale? È l'empatia che salverà il mondo"