Studio 60: la TV secondo Aaron Sorkin

Dialoghi arguti e strutture narrative articolate per una storia corale che tocca argomenti estremamente seri e delicati oltre a ritrarre un'amabilissima e sofisticata umanità.

La storia della cultura e dell'intrattenimento popolare è costellata di miracoli. Opere dal grande impatto sul pubblico e sulla critica, irripetibili successi commerciali e artistici che sono sufficienti però a screditare l'assioma snob "ciò che piace a tutti è immancabilmente mediocre": sono i bestseller blasonati che segnano una generazione, o i capolavori cinematografici con 10 o più Oscar in bacheca, o, ancora, i dischi dei Beatles. Certo li accomunano la capacità di parlare a tutti, i diversi livelli di lettura, la capacità di colpire l'immaginario collettivo. Ma c'è qualcosa in più, l'elemento incomputabile e imprevedibile: chiamiamolo fortuna. A Aaron Sorkin era toccata con The West Wing, una serial ambientato tra i corridoi della Casa Bianca, con protagonisti il presidente degli Stati Uniti e il suo qualificatissimo staff, che si muoveva agilmente tra problemi sociali e politici, dilemmi morali e vibranti conflitti umani, e che è considerato uno dei migliori prodotti televisivi di tutti i tempi oltre che uno dei più premiati con le sue 96 nomination totali agli Emmy.
Sorkin ci ha riprovato con Studio 60 on the Sunset Strip, altro sontuoso character drama ambientato proprio nell'ambiente della produzione TV: circondato da un grande hype e andato in onda su NBC. Dopo un discreto successo per i primi episodi, lo show ha registrato un costante e irrimediabile calo negli ascolti, che ha indotto il network a interromperlo alla fine della prima stagione. Ci restano però 22 eccezionali episodi in cui è evidente come il soggetto fosse personale e fecondo per Sorkin.

Protagonisti di Studio 60 sono Matt Albie (Matthew Perry) e Danny Tripp (Bradley Whitford), che vengono (ri)chiamati a lavorare allo storico show di sketch comici che prende il nome dal teatro in cui viene trasmesso, appunto Studio 60 on the Sunset Strip. Dopo qualche anno di impegni cinematografici, i due ritornano quindi nel loro elemento, ritrovano il lavoro frenetico che impone uno show settimanale, le vecchie beghe con i dirigenti del network (fittizio) NBS, e alcune vecchie conoscenze. Ha una certa centralità, ad esempio, il tribolato rapporto di Albie con la star dello show, l'attrice/ performer Harriet Hayes, una relazione ricalcata su quella di Sorkin con Kristin Chenoweth. Ma Sorkin infonde molto di sé stesso anche nel co-protagonista Danny Tripp, il cui ruolo è affidato a Whitford, suo amico e collaboratore dai tempi delle rappresentazioni a Broadway di A Few Good Men (opera teatrale alla base del film Codice d'onore).
Non manca un'affascinante leading lady: è Amanda Peet nei panni di Jordan McDeere, brillante presidente del network determinata a prediligere i programmi di qualità e ad ariginare l'ondata di reality show e analoga TV spazzatura.
Oltre al quartetto di personaggi principali, c'è un variopinto e gustoso cast di supporto arricchito da apparizioni di numerose guest star - memorabili quelle di John Goodman, Eli Wallach e Allison Janney - per una storia corale che tocca argomenti estremamente seri e delicati oltre a ritrarre un'amabilissima e sofisticata umanità.

Come detto, Studio 60 racconta il dietro le quinte delle trasmissioni, ma per gli sketch veri e propri non c'è molto spazio - a parte qualche notevole eccezione, come il dilettevole segmento musicale The Very Model Of A Modern Network TV Show, nel secondo episodio. Questo forse ha generato l'equivoco che ha danneggiato lo show presso la critica USA, che si aspettava davvero qualcosa di vicino ai programmi comici in diretta come Saturday Nights Live; a Sorkin invece interessava solo il contorno: i rapporti tra cast e realizzatori, le difficoltà del processo creativo, lo stress degli ascolti calanti, i conflitti con network, sponsor e associazioni di telespettatori. Un insieme di aspetti poco familiari per il pubblico e su cui costruire episodi a sé stanti era una vera scommessa. Rispetto a The West Wing, che cavalcava storyline forti e molto inserite nelle vicende americane, a Studio 60 manca un tema di facile presa su un pubblico generico, che non sia, quindi, quello degli addetti ai lavori o degli appassionati del settore.

Ritmi e stile di regia - con le fulminanti walk&talks, i corposi flashback, le strutture narrative originali e articolate, e dialoghi finissimi, complessi e arguti che sono il marchio di fabbrica di Sorkin e del suo collaboratore fisso, il regista Thomas Schlamme - sono gli stessi di The West Wing, ma sfidiamo chiunque a dirsene stanco. Rispetto allo show con protagonista Martin Sheen, Studio 60 regala forse maggiore spazio ai sentimenti, con una deriva romantica nella seconda parte della stagione che conduce a un risolutivo e conciliante lieto fine.
Una chiusura precoce gestita comunque al meglio possibile, per uno show che avrebbe avuto davvero molto da dire e che ci ricorda, ancora una volta, il volto migliore dell'America.