"Prendete ogni nostalgia, voi che entrate". Questo invito perentorio, dai vaghi richiami infernali e danteschi, sarebbe il perfetto benvenuto da mettere in bella vista all'ingresso di Hawkins. La quieta cittadina di Stranger Things, infatti, si è fatta conoscere e amare proprio per i suoi continui e mai celati richiami alla cultura pop tipicamente anni Ottanta, piena zeppa di musiche, suoni, atmosfere, oggetti e soprattutto citazioni cinematografiche di un decennio duro a morire. Qualcuno avrà provato una dolce malinconia nel ritrovare l'avventura di un gruppo di ragazzini uniti dalle stesse passioni, tra zaini in spalla e biciclette lasciate cadere dalla curiosità di esplorare una foresta oscura, altri si saranno semplicemente appassionati alla trama piena di mistero e di destabilizzante paranormale.
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Adesso, però, è giunto il tempo di crescere, di non ancorarsi soltanto al passato, e di diventare grandi. Sembra questo il motto implicito della seconda stagione di Stranger Things, in arrivo su Netflix dal 27 ottobre con 9 episodi che espanderanno l'universo narrativo di una storia alla ricerca della definitiva indipendenza.
Sì, perché abbiamo avuto l'occasione di vedere la prima puntata della seconda stagione in un cinema di Milano, dove per l'occasione era stata ricreata la giusta atmosfera: biciclette anni Ottanta, waffles da far leccare i baffi ad Undici, tipiche bibite gassate americane e pop corn degni delle migliori serate passate sul divano a guardare un bel film in VHS. Però, la vera sorpresa è stata un'altra. Infatti, dopo la proiezione dell'episodio, in sala irrompe un affabile e sorridente signore di nome David Harbour, noto come Jim Hopper dalle parti di Hawins. L'incedere è sicuro, il volto disteso, l'atteggiamento divertito, in netta antitesi col personaggio ambiguo e oscuro della serie. Per una volta ad indagare siamo noi, curiosi di scoprire i segreti di questo fenomeno quasi paranormale di nome Stranger Things.
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L'ordinario è straordinario
Al di là della storia di amicizia e di complicità tra gli irresistibili Mike, Will, Undici, Dustin e Lucas, Stranger Things compie almeno altri due "salti generazionali", esplorando sia l'adolescenza di Nancy, Jonathan e Steve che l'età adulta, quella dei genitori alle prese con traumi, sofferenze e grandi responsabilità. Tra loro spicca la figura criptica dell'imbolsito agente Hopper, un personaggio ben scritto e molto amato dai fan. Interrogato sul motivo di questo apprezzamento collettivo, Harbour ha detto: "Hopper è un personaggio che vive un grande arco narrativo durante il quale avviene una vera e propria trasformazione. Se ci pensate, era partito come un uomo morto dentro, rude, quasi antipatico. Infatti ricordo bene che, dopo le prime puntate, molti spettatori twittavano contro di lui, dandogli persino dello stronzo. Poi, a partire dal terzo e quarto episodio della prima stagione, qualcosa in lui inizia a smuoversi. La cosa interessante è che questo cambiamento non ha delle ragioni nobili, ma parte dal suo orgoglio ferito.
Così inizia questo risveglio interiore, un viaggio potente e raccontano davvero bene, dove scopriamo la tragedia che ha vissuto questo uomo che non è mai un vero eroe. Ecco, Hopper ci insegna soprattutto questo: bisogna conoscere qualcuno per giudicarlo". Uno degli elementi chiave della serie è la sua capacità di mescolare l'ordinario con lo straordinario, un tema fondamentale anche per Harbour che aggiunge: "Amo questo aspetto dello show. La fusione tra ordinario è straordinario non è solo un aspetto di Stranger Things, ma anche la mia missione di attore. Attraverso un uomo normale come Hopper, che è in sovrappeso, annoiato, con tanti problemi, trovo stimolante poter rivelare il suo essere in qualche modo straordinario. Il punto di accesso per poter raccontare qualcosa di grande è sempre la normalità".
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Ottanta nostalgia
Per chi è nato negli anni Settanta e Ottanta, Stranger Things vale come un dolce abbraccio nostalgico, un teletrasporto dentro atmosfere e personaggi assai familiari. Lo stesso vale per Harbour (classe 1975) che, a proposito di questa rievocazione, dice: "Per me gli anni Ottanta sono prima di tutto sinonimo di pubertà. Essendo nato a metà degli anni Settanta, negli anni in cui è ambientata la serie avevo circa 9 anni, quindi leggermente più piccolo dei protagonisti. Sono cresciuto in quel periodo, ho respirato la loro stessa aria, ho amato tutto quello che amano loro. Se devo riconoscermi in qualcuno, direi che ero molto simile a Will. Ero nerd come lui, un grande amante di videogiochi e di Dungeon & Dragons. Da spettatore Stranger Things equivale alla gioia di essere ritrasportato in quegli anni. Questo per chi è della mia generazione. Per i più giovani, invece, la serie è quasi una lezione di storia. Pensate ai ragazzi che si ritrovano quei telefoni fissi appesi alle pareti delle cucine, quelli con il filo lunghissimo. Ricordo che mia madre ci viveva a quel telefono e io puntualmente inciampavo su quel filo. Per loro oggetti come quelli sono del tutto sconosciuti".
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Uno zio protettivo
Sdentati, teneri, determinati, dolci, combattivi. L'altro ingrediente per niente segreto di Stranger Things è l'alchimia tra i suoi adorabili ragazzini, il cui casting ha portato sullo schermo dei volti subito familiari. Tra di loro spicca il talento spontaneo di Millie Bobby Brown, capace di essere imprevedibile e fragile allo stesso tempo. Nata nel 2004, la giovane e carismatica attrice di origini spagnole sembra avere davanti a sé la tipica carriera folgorante dei predestinati. David Harbour, però, impone una certa cautela: "Questo amore feroce che ha investito tutti i ragazzi dello show un po' mi spaventa. Tutti si sono innamorati di loro, certo, ma quello che devono capire prima di tutto è l'etica del duro lavoro. Tante volte abbiamo sentito di giovani attori finiti male, incapaci di reggere l'onda d'urto del successo e le pressioni di Hollywood, per cui cerco di essere protettivo con loro, come uno zio un po' cattivo che li tiene con la testa sulle spalle e i piedi per terra. Non devono adagiarsi sul loro talento, ma imparare a diventare dei bravi narratori. Così, magari, quando sarò vecchio, verranno a trovarmi in ospizio facendomi vedere i loro Oscar".
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Dal Sottosopra spunta Hellboy
Il clamoroso e inarrestabile successo di Stranger Things è stato in parte imprevisto, figlio della voglia di rischiare tanto cara in casa Netflix. Un merito che David Harbour commenta così: "Credetemi, quello di Stranger Things è stato uno degli script televisivi più belli che io abbia mai letto, e inizialmente non pensavo che sarei stato scelto per la parte. Sono cresciuto con film come Indiana Jones, I Goonies, E.T. L'Extraterrestre, e credo che la forza della serie sia proprio quella di aver conservato il calore e la magia di quelle storie. Qualcosa che il cinema commerciale sembra aver perso. Oggi, grazie a Netflix, viviamo un rinascimento televisivo, perché si investe sulla creatività, sulle idee originali e su progetti rischiosi come il nostro. E i rischi, spesso, sono opportunità".
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Poi, ecco arrivare un consiglio saggio e molto sentito, dedicato a tutti i trepidanti innamorati del binge-watching: "Se finite tutta la seconda stagione in un giorno solo, siete davvero degli stupidi. E sapete perché? Perché poi dovete immediatamente aspettare un anno per godervi un'eventuale prossima stagione. In realtà lo faccio anche io, lo ammetto, perché è uno show fantastico, ma forse dovremmo tutti godercelo di più". Infine, ecco un'ultima battuta sul suo prossimo e ambizioso progetto cinematografico, ovvero una nuova versione di Hellboy, diretta da Neil Marshall, prevista tra il 2018 e il 2019. Sul nuovo cinecomic, il buon David ha dichiarato: "Desideravo molto questo ruolo perché amavo i fumetti di Mike Mignola dedicati ad Hellboy. E ammetto di aver apprezzato tanto anche i due film diretti da Guillermo del Toro. Il nostro Hellboy sarà diverso, più dark, violento e tormentato. Direi quasi amletico. Ormai i supereroi rappresentano la nostra mitologia, sono parte integrante dell'epica moderna, Thor e Capitan America sono i nuovi Ercole e Agamennone. Per cui è bello poter essere parte di tutto questo". Prima di salutare, David Harbour chiede un ultimo favore al pubblico: mettersi in posa per un suo selfie, facendo finta di essere entusiasti. Questa volta ti sbagli, caro David, non c'era davvero niente da fingere.