Potrebbe sembrare che, negli ultimi tempi, gli anni Ottanta siano tornati sulla cresta dell'onda, ma forse è più corretto dire che non sono mai passati di moda. È difficile (e magari anche ingiusto) tentare di racchiudere un revival tanto diffuso entro un'unica categoria, così come individuare motivazioni ben precise per un fenomeno così ampio, generico e variegato, e di cui abbiamo avuto esempi già negli anni passati.
In ogni caso, il 2016 sembra aver rilanciato con forza ancora maggiore una curiosità ammantata di nostalgia nei confronti di quel decennio tanto discusso, talvolta addirittura sbeffeggiato, ma di indubbia rilevanza sul piano del costume. Un decennio, gli Ottanta, che sul piano dell'immaginario collettivo (americano innanzitutto, ma anche europeo) ci ha lasciato un'eredità a dir poco sterminata, e talmente massiccia da aver finito per 'schiacciare' quella del decennio successivo. Vero: i Novanta sono stati gli anni di Pulp Fiction, di Twin Peaks (le cui radici affondano però negli Ottanta), di X-Files e di Friends, ma la forza iconografica degli Eighties nell'ambito dello spettacolo e della cultura pop è e resta irresistibile.
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Benvenuti a Sing Street
Un discorso che riprenderemo in seguito, ma che per ora funge da premessa per spiegare il successo di uno dei gioiellini del cinema britannico, appena approdato nelle nostre sale grazie a BIM Distribuzione dopo la sua première mondiale, a gennaio, al Sundance Film Festival e il recente passaggio all'undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma: Sing Street. Un'opera, quella del regista, sceneggiatore e musicista irlandese John Carney, tanto in apparenza modesta nelle ambizioni e negli intenti, quanto piacevolissima nel risultato, e con un inevitabile effetto passaparola a sopperire all'assenza di nomi di richiamo nel cast. L'ispirazione parzialmente autobiografica, in questo caso, offre lo spunto a Carney per rievocare scenari della sua stessa adolescenza mediante il personaggio di Conor Lalor, quindicenne che vive con la propria famiglia, a Dublino, nel 1985, in una situazione di disagio economico e sociale.
Mentre nella vicina Gran Bretagna i sindacati e la working class erano impegnati in un logorante braccio di ferro con il Primo Ministro Margaret Thatcher (giusto a proposito, basti citare un moderno cult quale Billy Elliot oppure l'ottimo Pride, uscito due anni fa), anche in Irlanda evidentemente le condizioni della classe media non erano delle migliori. Sing Street non affronta esplicitamente l'aspetto 'politico', eppure l'atmosfera di scoraggiamento e di crisi costituisce una parte integrante del tessuto narrativo del film. E Conor, di fronte alla crescente difficoltà dei genitori (con tre figli sulle spalle) nel far quadrare i conti del bilancio familiare, si trova dunque costretto ad abbandonare la scuola privata per trasferirsi presso un istituto statale a gestione religiosa (veramente esistente), la Synge Street Christian Brothers School, senza potersi neppure permettere un paio di scarpe nere per aderire al rigido codice d'abbigliamento imposto dal severo direttore, fratello Baxter.
Nostalgia Eighties: l'età dell'innocenza?
Ma il contesto di riferimento, ricostruito nel film in maniera credibile e senza forzature, non funge solo da variopinta cornice a questo accattivante coming of age in chiave musicale, ma in qualche modo ne scandisce il 'ritmo': l'ingenuità, il desiderio di affermazione, gli impulsi anticonformistici (e ribellistici) amalgamati ad uno spirito romantico deliziosamente naif sono elementi che contraddistinguono un numero incalcolabile di personaggi scaturiti dal 'serbatoio' del cinema degli anni Ottanta. È per questo che Conor, impacciato e sensibile, interpretato dall'esordiente Ferdia Walsh-Peelo, è un protagonista per il quale è impossibile non fare il tifo già dai primissimi minuti di visione; così come i suoi compagni d'avventura nella formazione dell'improbabile band eponima della pellicola, tra cui il buffo e intraprendente manager tuttofare Darren (Ben Carolan), coetaneo di Conor, e il dotato polistrumentista Eamon (Mark McKenna), che adora i conigli e deve far convivere il proprio talento con una mamma onnipresente.
Per certi versi, si tratta dell'analogo approccio adottato in altri due prodotti usciti, più o meno casualmente, sempre nell'arco del 2016, e anch'essi ambientati più di trent'anni fa. In Stranger Things, serie televisiva a tinte fanta-horror che la scorsa estate ha catalizzato l'entusiasmo del pubblico, il principale punto di forza del racconto risiede nel gruppo di giovanissimi protagonisti, preadolescenti determinati a indagare sulla misteriosa scomparsa del loro amico, contraddistinti dall'innocenza, la tenerezza e la fantasia di I Goonies contemporanei; mentre è superfluo sottolineare lo sfavillante citazionismo degli anni Ottanta, favorito dall'ambientazione (la provincia dell'Indiana nel 1983). Poco prima, questa volta invece sul grande schermo, avevamo avuto modo di apprezzare Tutti vogliono qualcosa, racconto di formazione concentrato in un unico weekend a firma di Richard Linklater. In quel caso aumentava l'età dei personaggi, ventenni o quasi alle soglie della loro prima esperienza universitaria, e retrocedeva la lancetta cronologica: il 1980, l'alba di un decennio fatidico il cui vitalismo trova un perfetto contrappunto musicale nella ricchissima colonna sonora del film (Queen, Van Halen, Blondie, Cars, Foreigner e tanti altri ancora).
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E la musica, come anticipato, è la componente fondamentale anche in Sing Street: come motore della narrazione (le canzoni eseguite dalla neonata band scolastica), come elemento extradiegetico (alcuni evergreen di metà anni Ottanta), ma pure come veicolo del senso profondo del film, fra una timida educazione sentimentale - l'attrazione di Conor per una ragazza poco più grande, l'aspirante modella Raphina (Lucy Boynton) - e la progressiva definizione identitaria di chi sta imparando a conoscere se stesso. E questa definizione, per Conor e per i suoi coetanei, passa appunto attraverso la scoperta e la passione per alcuni fra i maggiori artisti pop del decennio: un pop che si esprime tramite il conniubio fra ritornelli infallibili e immagini luccicanti (l'arte del videoclip, con le sequenze tratte da Rio dei Duran Duran), o capace di condensare in una sintesi perfetta la coesistenza fra gioia e malinconia, ovvero il concetto del cosiddetto happy-sad (ed ecco riecheggiare, puntualmente, la melodia trascinante della mitica In Between Days dei Cure).
Ed è sul modello di alcune fra le grandi hit degli anni Ottanta, fra cui trovano posto anche Town Called Malice degli Jam, Gold degli Spandau Ballet e Maneater di Hall & Oates, che lo scozzese Gary Clark ha composto i brani originali, ma in puro stile Eighties, affidati ai giovanissimi musicisti dei Sing Street: il pop ironico e dai tocchi glam di The Riddle of the Model, associato a un video dal look gustosamente kitsch; dolcissime ballate quali Up, To Find You e la più movimentata Beautiful Sea; la melodia strepitosamente catchy di Girls (con tanto di falsetto che più anni Ottanta non si potrebbe) e di un'atipica protest song, l'anticlericale Brown Shoes; e, per la scena clou della pellicola, un pezzo folgorante come Drive It Like You Stole It, che sembra essere uscito direttamente da una classifica di metà anni Ottanta, e che sullo schermo si accompagna a un meraviglioso omaggio al film probabilmente più popolare del 1985, Ritorno al futuro di Robert Zemeckis, e a un'altra, celeberrima esibizione canora durante un ballo scolastico.
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La musica ci salverà
Più tradizionale e formalmente 'patinato' (ma da non intendere in senso negativo) rispetto al primo successo di John Carney, l'ammiratissimo Once del 2006, più sincero e coinvolgente rispetto alla sua penultima pellicola, Tutto può cambiare del 2013, Sing Street è forse il miglior film diretto finora dal regista irlandese, senz'altro quello in grado di suscitare il maggior tasso di empatia. Perché la parabola di questo quindicenne vessato dai bulli della scuola, che imitando le acconciature di Simon LeBon e Robert Smith acquista una sicurezza che non avrebbe mai creduto di possedere, si trasforma in un'autentica dichiarazione d'amore nei confronti della musica e dell'energia che possiamo trarre da essa. L'energia necessaria a resistere a un mondo che, tutt'intorno a noi, sembra crollare a pezzi: emozionanti le sequenze dei tre fratelli chiusi in una stanza, con lo stereo al massimo volume, mentre i loro genitori urlano l'uno contro l'altra. L'energia necessaria a raccogliere la consapevolezza per alzare la testa e ribellarsi ai soprusi (e non a caso la soundtrack si concede un significativo 'anacronismo': I Fought the Law, nella versione dei Clash del 1979, diventata un classico del punk).
L'energia necessaria, infine, ad esprimere ad alta voce i propri sentimenti, a lottare per veder realizzato il proprio futuro; a trovare il coraggio per abbandonare la terraferma e prendere il largo, a dispetto delle onde che si abbattono contro la nostra esile imbarcazione. Sing Street è innanzitutto questo: un'apologia sul potere salvifico dell'arte, della musica e, naturalmente, del cinema. Indispensabili armi di difesa contro le ferite dell'esistenza, ma ancor di più ingredienti per una conseguente rinascita. E Dio sa se, oggi come negli anni Ottanta, ne abbiamo ancora un disperato bisogno...