Scamarcio e Rubini: tra successo e imprevedibilità

L'attore/regista di tanti successi degli ultimi venti anni, e uno dei nuovi protagonisti del cinema italiano, hanno dato vita a un insolito confronto nell'ambito della sesta edizione del Festival di Roma.

Una sala Petrassi praticamente piena, in una giornata segnata dalla preoccupazione del pubblico romano per il malore riportato da Pupi Avati, altri due protagonisti del cinema italiano di oggi (e di domani) si sono incontrati per uno dei tradizionali "confronti" offerti dal festival capitolino. Radici comuni nella soleggiata e misteriosa terra pugliese, ma percorsi e approcci al cinema molto diversi, quelli di Riccardo Scamarcio e Sergio Rubini: due generazioni diverse e una diversa sensibilità nel cimentarsi con un oggetto sfuggente e fluido come quello della recitazione, con un'arte che impone un dosaggio accurato, difficile da raggiungere nella sua pienezza, tra disciplina e follia creativa. Contrariamente a quello che era il programma iniziale, l'incontro e il dibattito tra i due si è tenuto dopo la proiezione dei due documentari che li vedono come rispettivi protagonisti: il breve Sergio Rubini, un attore regista, che ripercorre sinteticamente la carriera ormai pluriventennale del cineasta pugliese, e il più articolato Io non sono io - Romeo, Giulietta e gli altri, un film che documenta passo passo la vita della troupe teatrale che ha recentemente messo in scena il dramma shakespeariano, in cui Scamarcio ha vestito i panni del protagonista. Il successivo dibattito, moderato da Mario Sesti, è stato inframezzato da clip di repertorio in cui abbiamo potuto vedere momenti significativi della carriera dei due, tra cui la sequenza di Intervista che ha segnato l'incontro di Rubini con Federico Fellini, spezzoni da Romanzo Criminale e Mio fratello è figlio unico, oltre ad alcune sequenze dei due recenti film che hanno visto i due lavorare insieme, Colpo d'occhio e L'uomo nero.
Dopo un breve, scherzoso siparietto in cui i due si sono rimpallati le diverse (e inconciliabili) reminescenze su quale fu effettivamente il momento del loro incontro, Scamarcio e Rubini hanno iniziato a rispondere ai quesiti proposti loro prima da Sesti, e poi dal pubblico intervenuto all'incontro.

Secondo voi esiste, effettivamente, uno stile italiano di recitazione? Sergio Rubini: Direi di sì, la nostra è la tradizione della Commedia dell'Arte. Per noi recitare è un imbroglio, l'attore indossa una maschera che può nascondere tutt'altro: Eduardo, per esempio, diceva che per un attore non è necessario piangere in scena, ma basta girare le spalle e scuoterle leggermente. Recitare è bluffare. Poi esiste tutta un'altra tradizione, che è quella che deriva dal metodo Stanislavski, per cui recitare è invece immedesimarsi, "diventare" il personaggio.

Tu, una volta, hai detto anche che una parte dei tuoi personaggi ti restano sempre addosso. Non è un po' pericoloso, questo? Sergio Rubini: Questo fa parte dell'instabilità dell'attore. L'attore ha sempre problemi di instabilità, ma il personaggio può anche, a volte, compensare alcune delle sue falle: un personaggio in cui non ti riconosci potrebbe anche darti qualcosa che ritieni ti manchi.

E per Scamarcio, qual è il personaggio che in cui ha trovato qualcosa di cui lui andava in cerca? Riccardo Scamarcio: Non so, non riesco a farci sopra un'analisi razionale. Se il lavoro è fatto bene, nel momento della recitazione c'è una totale perdita di coscienza, in quel momento trovo qualcosa, ma non c'è vera consapevolezza. Il gioco della recitazione sta nel perdersi. Oltre all'approccio della Commedia dell'Arte, ricordato da Sergio, non dimentichiamoci quello di Carmelo Bene, che vedeva il palcoscenico come luogo metafisico, quasi mistico, in cui l'attore si perde.

Che effetto ti ha fatto rivederti per la prima volta sullo schermo? Riccardo Scamarcio: Beh, all'inizio c'è stato un senso di rifiuto, una vera condizione di sofferenza nel rivedermi sullo schermo. Era una brutta sensazione, ma poi l'ho superata, ora ho senz'altro un rapporto più sano con la mia immagine sullo schermo. C'è da dire, poi, che al cinema ho un approccio completamente diverso alla recitazione: in teatro sono sempre teso e in attesa del momento di andare in scena, mentre al cinema, paradossalmente, mi concentro di più se sono distratto. Prima del ciak chiacchiero, scherzo, faccio altro, ma poi, una volta iniziata la scena, tutto viene automaticamente. Non so perché mi succede.

Forse il tuo è un abbandonarti? Riccardo Scamarcio: Sì, al regista. La differenza col teatro è che non hai un pubblico a cui rapportarti immediatamente. Il regista è il "pubblico" del cinema.

Il cinema commerciale ha scoperto presto Scamarcio. Lui ha trovato presto un suo stile fatto di impassibilità, che consiste nel comunicare le cose stando fermi... Sergio Rubini: Di lui mi ha colpito subito che non era in conflitto con la sua bellezza, che è un po' il problema di tutti gli attori fisicamente belli. E' stato subito consapevole del suo volto, non gli ha opposto resistenza, e questo lo ha portato a saper "riempire" una scena anche stando fermo.

Scamarcio, qual è il tuo punto di vista su Sergio Rubini come regista? Che effetto ti ha fatto lavorare con lui? Riccardo Scamarcio: E' stato come un premio, un sogno che si è avverato, visto che lo ammiravo da sempre, da prima di decidere di fare l'attore. La cosa incredibile è che ti fa sentire invincibile come attore, non mette mai in dubbio che tu le cose le sappia fare. Io giocavo con lui, mettevo in atto alcuni dei trucchetti dell'attore per dissimulare la mia tensione, facevo vedere che non me ne fregava niente aspettandomi che prima o poi si arrabbiasse. Non è successo, anzi ha avuto una capacità incredibile di neutralizzarmi.

Quanto conta l'istinto, l'improvvisazione per un attore? Sergio Rubini: Per un periodo ho pensato che fosse possibile recitare al buio, non preparare nulla e andare semplicemente in scena. Ora penso che il vero grande attore sia altro, che sia quello che riesce a essere al buio senza esserlo davvero: lo studio è fondamentale, ma poi bisogna riuscire a disimparare dopo aver studiato, buttare via in parte le regole e creare il caos, perché è di questo che è fatta la vita reale.

E' vero che Fellini la scelse perché aveva lo stesso cognome del protagonista de La dolce vita? Sergio Rubini: Credo sia proprio così, altrimenti la sua scelta non si spiegherebbe. C'erano decine di pretendenti a quel ruolo. Io credo che non sapesse nemmeno che ero un attore, anzi penso che ci sia rimasto malissimo quando l'ha scoperto. Credo che abbia pensato che un attore potesse rompergli le scatole, infatti la prima cosa che mi ha detto è stata "abbi fiducia".

Scamarcio, dalla tua esperienza sul set con Rubini, pensi che lui tenda a esplorare sempre nuove possibilità per il suo cinema? Riccardo Scamarcio: Sì, credo che il mondo che lui racconta sia un mondo complesso, visto da un punto di vista personale. C'è inoltre, nei suoi film, un rapporto costante col mistico, col mistero e con la riscoperta della spiritualità: il cinema è anche questo.

Rubini, una cosa che ti piace di Riccardo Scamarcio? Sergio Rubini: Il fatto che a un certo punto ha dato una sterzata alla sua carriera, rimettendosi completamente in gioco. Aveva iniziato con cifre da capogiro e poteva continuare a fare l'idolo delle teenager per altri 20 anni, ma a un certo punto ha voluto entrare in un cinema completamente diverso, certo economicamente meno remunerativo.
Riccardo Scamarcio: Sottolineo che in questo, però, non c'è merito: è una cosa che ho fatto in maniera del tutto egoistica. Per quanto non rinneghi nulla di ciò che ho fatto, e per quanto a tutt'oggi pensi che Tre metri sopra il cielo fosse un film a suo modo sincero, il cinema che mi interessava era un altro: credo che l'artista vero debba essere sempre pronto a combattere per le proprie idee, senza farsi incastrare in quei modelli, in quei prototipi che la società, e non solo il cinema, ci propone.

Rubini, nei tuoi film c'è spesso un rapporto particolare con la Puglia e con i suoi riti magici... Sergio Rubini: Giuro che non lo faccio apposta a mettere sempre la mia terra nei miei film: non ho un rapporto con l'Ente Turismo pugliese! Lo faccio perché, quando racconto una storia, mi piace sempre partire dalle mie radici; la mia terra è un luogo della memoria che mi vive dentro, anche perché sono andato via. Mi viene più facile collocare le mie storie in quei luoghi, anche perché ho la presunzione di conoscerli almeno un po'. Resta il fatto che la mia non è una fotografia, nei miei film non ci sono pretese antropologiche o sociologiche: il cinema è finzione, quindi dev'essere in grado di raccontare la realtà anche adattandola, modificandola con la fantasia.

Scamarcio, tu cosa porti al cinema della tua recente esperienza teatrale del Romeo e Giulietta? Riccardo Scamarcio: Ho voluto fare quest'esperienza pur sapendo che sarebbe stata rischiosa. Era arrivato un momento di confusione personale, così ho pensato "ora faccio teatro": l'ho fatto per riscoprire qualcosa che potesse rimettermi in contatto, in modo profondo, con la mia anima e la mia personalità.

Ci puoi dire cosa ti ha spinto a fare l'attore? Riccardo Scamarcio: E' una lunga storia. Avevo litigato coi miei genitori perché non andavo bene a scuola: mio padre mi aveva promesso che, in caso di promozione, mi avrebbe consentito di fare un provino, anche se quello a cui pensavo allora non era la recitazione ma forse un lavoro di modello, neanche ricordo bene. Le mie idee allora erano confuse. Ci fu questa grossa litigata, e scappai di casa in lacrime. Mi rifugiai in un bar dove incontrai un amico che mi disse "guarda, tu devi darti una calmata, placati. Fai una cosa, fai l'attore!" Quella è stata una vera illuminazione, ho pensato che era vero, che era proprio quello che avrei dovuto fare. L'ho saputo con sicurezza, quella sicurezza assoluta che si può avere solo a 15 anni.