La settimana in cui l'Italia si blocca, nemmeno ci fossero i mondiali. L'Italia dove tutti diventano esperti musicisti, discografici, coreografi, opinionisti. La settimana del "eh, ma era meglio prima!", quando "il prima" era un signore anzianotto al centro di un patinato palco, con accanto due vallette scosciate. Insomma, è la settimana dei fiori e delle musichette (com'è che dicevano in Boris?), degli scoop e delle notti lunghe. È la settimana del Festival della Canzone Italiana di Sanremo. Ora, chi scrive, è abbastanza indifferente alla competizione canora, ma è incuriosito dal fenomeno in sé, essendo lo spunto più ombelicale (e ormai per nulla internazionale) del nostro Paese. Così, ecco la suggestione, che circolava in testa da un po'. Se viviamo in un'epoca in cui siamo costantemente assoggettati da input esterni, Sanremo diventa il capo espiatorio di un discorso molto più ampio che merita di essere approfondito. Un discorso, ma anche una domanda che poniamo (e ci poniamo): ma Sanremo, vogliamo o dobbiamo vederlo? Una differenza sostanziale, che sfrutta il fenomeno mediatico per eccellenza.
Da dieci anni a questa parte, Sanremo non è più una manifestazione per boomer, bensì è riuscito a far presa sul pubblico più giovane (e Amadeus ci ha messo del suo, come vi abbiamo spiegato qui), anche per l'affermazione del linguaggio social, che calca di conseguenza il contro-fenomeno del FantaSanremo. Qui, la prima riflessione, che si lega alla moda: seguiamo un flusso perché indirizzati da altri, come le sardine che si muovono all'unisono per sfuggire ai predatori. Lo facciamo, perché forse ci dicono di farlo. Sempre con il forse, seguiamo Sanremo non perché ci piaccia davvero, ma forse perché è un argomento di discussione talmente polarizzante che non possiamo farci trovare sguarniti (il condizionale è d'obbligo, non bisogna generalizzare!).
Del resto, bisogna condividere la nostra preferenza, bisogna prendere posizione (contro Blanco e i fiori? Contro Bugo o contro Morgan?), come allo stadio. Non ci sono mezze misure, conta l'opinione diretta e dritta, per non restare tagliati fuori da un corollario che corre veloce. Se resti indietro, sei "un radical chic", uno "snob". Non vuoi perdere il passo? Vuoi sentirti parte di Sanremo 2024, anche dal divano di casa? Devi sorbirti lo show, che ti piaccia o no. Ed ecco che ci tornano alla memoria le parole di Salvatore Quasimodo, che nel 1967 scriveva così su Il Tempo: "Eppure vogliamo parlarvi ancora di Luigi Tenco, cantautore, che per un giorno si è conquistato con la morte tanta notorietà come non era mai riuscito da vivo con le sue canzoni [...]. E non siamo forse un po' tutti responsabili dell'atto estremo del cantante, noi che esaltiamo e sopportiamo il carosello del festival, da anni, senza esigere nemmeno un livello minimo di intelligenza nei contenuti delle canzoni?".
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Sanremo, tra la libertà e il giudizio critico delle mode
Perché pensateci, dalla moda alla tv fino al cinema, subiamo periodicamente un cambio di prospettiva data dalla società in cui viviamo. L'individualità viene meno, ed è azzerato il giudizio critico verso quei prodotti che vediamo, che ascoltiamo, che indossiamo. Lo ripetiamo, in questo nostro discorso, che può sembrare pretenzioso e ombelicale tanto quanto Sanremo stesso, il Festival è il pretesto perfetto per un contesto in cui ci ritroviamo quotidianamente. Se non possiamo restare indietro, rispetto a fenomeni culturali di estremo impatto, rimarchiamo la libertà di prenderci il nostro tempo, guardando (o non guardando) le cose con la giusta distanza. Un pensiero che, nel nostro mondo, è applicabile anche alla serialità, o al cinema: chiaro, il nostro lavoro (che non è improvvisato, ma frutto di studio e professionalità) prevede una visione dei fenomeni stessi, ma se ci mettiamo nei panni del pubblico (perché anche noi siamo pubblico), ci troviamo a ragionare sulla fragilità di certe serie o di certi film, che vivono di un riflesso legato al dovere e non al volere.
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Non solo Sanremo: cinema e serie, ma cosa vogliamo vedere davvero?
Gli esempi, per allontanarci da Sanremo, sono tanti. Pensiamo alla serialità Marvel o a quella di Star Wars. Titoli propedeutici per le saghe, viste solo perché legate ad un franchise di cui siamo appassionati. Ma quanto siamo appassionati, se ci troviamo a portare avanti serie poco riuscite, solo per stare al passo della saga? Del resto, il tempo non torna, e le nostre scelte obbligate indirizzano altre scelte che diventeranno di conseguenza obbligate nei nostri confronti. Un circolo vizioso da cui è impossibile uscire? Solo in parte. Dovremmo chissà ritrovare il gusto oggettivo delle cose: godersi Sanremo perché si è appassionati di musica, e non perché è un argomento di discussione sulle chat Whatsapp. Godersi Sanremo senza l'oppressione di condividere la propria opinione, divincolandosi da un carosello che ci obbliga alla complicità, pure se non abbiamo voglia di essere complici di "una platea ingessata", come diceva Vasco Rossi a proposito della sua partecipazione nel 1983.
Sanremo, come al cinema: perché non godersi Barbie, Povere Creature!, C'è ancora domani o Il ragazzo e l'airone senza fotografare scene o momenti, con l'ossessione di dover condividere la partecipazione stessa? (del cinema come evento e delle stories in sala ne avevamo già parlato qui). E poi le serie: dobbiamo cominciare a guardarci intorno in questa offerta sconfinata di prodotti. Divincoliamoci dalle classifiche, dagli algoritmi. Divincoliamoci dagli obblighi di una timeline senza fine. Torniamo a scegliere ciò che vogliamo scegliere. Che sia Sanremo, che sia una serie tv, che sia un bel film al cinema. "La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare", diceva Jep Gambardella in quel capolavoro chiamato La grande bellezza. Sì, molliamo l'ansia della presenza a tutti i costi, ricerchiamo il sapore delle cose, con lo spirito libero e l'occhio leggero. E con il telecomando a portata di mano.