A Complete Unknown, Dune parte 2, Emilia Perez e The Brutalist hanno un paio di cose, non indifferenti, in comune. Sia il film di James Mangold che quelli di Denis Villeneuve, Jacques Audiard e Brady Corbet figurano nella lista di dieci film dalla quale, al Dolby Theatre di Los Angeles, verrà eletto quello meritevole della statuetta dorata per il miglior film.
Eppure questi quattro lungometraggi così diversi fra loro - un biopic su una fase importantissima della vita di Bob Dylan, la seconda parte del kolossal sci-fi basato sul libro di Frank Herbert, l'atipico musical transgender e la riflessione brutale fra afflato artistico e ingerenze del capitale, condividono anche altro. L'impiego, nel corso della loro lavorazione e post-produzione, di strumenti d'intelligenza artificiale.

Roba che scotta, tanto che proprio la diffusione delle notizie su come alcune delle pellicole in gara agli Oscar si siano servite di tool manzonianamente innominabili (anche se usati già da anni nell'industria) porterà quasi sicuramente l'Academy ad introdurre delle nuove regole. Qualche giorno fa Variety scriveva infatti che, in futuro, le produzioni che si sono servite dell'IA lo dovranno dichiarare apertamente. Ora è una scelta libera (e guarda caso nessuno si affretta a urlarlo ai quattro venti).
D'altronde, è bene sottolinearlo, proprio la questione dell'intelligenza artificiale e dei rischi alla quale esporrebbe l'industria specie nell'ottica del taglio di forza lavoro, è stato uno dei nodi centrali degli scioperi degli attori e degli sceneggiatori della seconda metà del 2023. Ad aprile è altamente plausibile che l'Academy promulgherà la nuova direttiva che sarà quindi già in vigore per il 2026. La domanda che ci poniamo è però semplice e lineare: che senso ha?
L'intelligenza artificiale è già dappertutto, Hollywood compresa
Non fraintendete il titolo di questo paragrafo. Non siamo, a prescindere, dei tecnofeticisti pronti ad abbracciare in maniera acritica una nuova tecnologia. È una tematica, quella dell'IA, che di recente abbiamo affrontato anche in una live su YouTube e che, per vostra comodità, trovate qua sotto.
Il gancio di partenza era proprio quello relativo a The Brutalist, ma abbiamo discusso in modo decisamente più allargato un tema con cui, in una maniera o nell'altra, abbiamo tutti a che fare. Spesso in maniera inconsapevole. Vi basti pensare che se in tasca avete un iPhone commercializzato negli ultimi tre anni, ogni foto che scattate viene elaborata sulla base degli algoritmi di IA interni a iOs.

Lavoriamo poi in un settore, quello dell'editoria online, che sta già risentendo da tempo gli effetti nefasti dell'intelligenza artificiale per di più in un contesto dove ormai la metà del traffico web di tutto il mondo non è fatto da persone, ma da... bot. E Hollywood l'intelligenza artificiale non l'ha di certa scoperta negli ultimi mesi con i quattro film citati nell'esordio di questo articolo.
La macchina del fango
Le riflessioni, polemiche, sull'intelligenza artificiale e i film candidati agli Oscar è nata, dapprima, come palese escamotage per far perdere credibilità a questo o quel lungometraggio. Prima c'è stato Emilia Perez con l'uso di tool di IA per migliorare la voce di Karla Sofía Gascón nei momenti musicali. Poi la bagarre nata intorno ai vecchi tweet proprio di Gascón ha fatto di peggio, ma non divaghiamo.

In seguito a finire sulla gogna è stato The brutalist per via di ReSpeecher, un software ucraino con cui sono state limate, migliorate e rese indistinguibili da quelle di un madrelingua le pronunce di alcune parole ungheresi dette da Adrien Brody e Felicity Jones. Una manciata di secondi in un film che dura quasi tre ore e mezzo. Poi per carità, è un'altra storia dire che farsi un giro sulle pagine del sito ufficiale di ReSpeecher sia mediamente inquietante perché, se vi servono per abbellire la reel della gita al lago di Bracciano, potete tranquillamente comprare e usare le voci di defunti illustri come Stan Lee o Orson Welles. Tutto perfettamente legale e avvallato dalle fondazioni che si occupano di gestire gli "interessi post-mortem" dei citati, ma soprattutto dei loro eredi.

Tornando al nostro quartetto, la realtà dei fatti è che pure A Complete Unknown e Dune - Parte Due si sono serviti dell'IA. Nella pellicola di Mangold, come ha spiegato un portavoce di Searchlight a Variety, il tool è entrato in ballo "in tre brevi inquadrature ampie su una motocicletta, senza coinvolgere direttamente la performance o effettuare migliorie creative. Questa tecnologia è comunemente usata per far somigliare gli stuntman agli attori nei film. L'azienda di VFX ha implementato questa metodologia specifica come strumento per gli artisti, limitatamente a queste tre scene, peraltro questi tipi di sostituzione del volto negli stunt vengono utilizzati da decenni".

Per Dune 2 è stato adoperato il modello di machine learning Nuke CopyCat per far sì che l'aggiunta della tinta blu agli occhi di tutti gli attori che interpretano i Fremen diventasse un processo automatizzato. Ecco, come biasimare la cosa? Provate a immaginare il tempo che ci sarebbe voluto (e che magari si sarebbe potuto dedicare ad altro) e i soldi che si sarebbero spesi se fossero state delle persone a lavorare frame per frame per la variazione dell'iride.
Machine learning VS IA generativa
Nel grosso calderone mediatico dei discorsi sull'intelligenza artificiale viene spesso omesso che, sotto questo cappello, possono stare due tipi di IA, il machine learning e l'IA generativa che non sono propriamente le stesse cose. Quello che fanno viene suggerito dal loro nome.
Nella prima, abbiamo a che fare con (chiediamo scusa per l'estrema semplificazione, ma è per essere chiari a tutti) con un software che, letteralmente, impara a fare qualcosa. Autonomamente o in base a una serie di parametri. È quanto accaduto in Dune 2, come scrivevamo qualche riga più su. Vengono immessi dei parametri grazie ai quali il software capisce cosa fare e quando farlo e si ottimizza una procedura che se fosse stata fatta a mano sarebbe stata tediosa e lunghissima. Quella generativa è invece il tipo capace di originare materialmente dei contenuti, che possono essere di tipo visivo o testuale (ma anche qua, stiamo semplificando al massimo: in ambiti di ricerca scientifica viene adoperata da tempo e non per creare vignette stile anime di un laboratorio).

Sicuramente fra le due questa è quella che desta più preoccupazione fra i creativi perché per dare forma alle sue opere analizza dati e informazioni pre-esistenti. Anche tenendo conto di questo, va da sé che pure l'intelligenza generativa lavora in modo differente se, dall'altra parte del monitor, c'è una persona che come prompt immette robe come "Fammi una foto profilo carina per Instagram" o un artista, un visual FX specialist e via discorrendo che ha tutto il know-how necessario al raggiungomento di risultati più elaborati. Competenze e obbiettivi d'impiego cambiano drasticamente lo scenario.
Le nuove regole che l'Academy introdurrà prossimamente (ad aprile in teoria) in materia di "disclosure" sulla presenza di IA nella lavorazione di un film, più che la risposta a dei quesiti su dei cambiamenti già in atto da svariato tempo a Hollywood come altrove i cui esiti sono allo stato attuale imprevedibili, sembrano più che altro atti a generare solo ed esclusivamente un inutile bias di partenza sull'eventuale giudizio su un dato film.
O, parlando più terra terra, una maniera per pararsi le terga.