Gioca con luce e buio Notturno, ma anche con calore e freddo: a quattro anni di distanza da Fuocoammare, Orso d'oro a Berlino, e a sette da Sacro GRA, Leone d'Oro a Venezia 70, Gianfranco Rosi è tornato al Lido in concorso con un documentario girato, praticamente da solo, al confine tra Siria, Iraq, Kurdistan, Libano, dove ha trascorso tre anni.
In sala dal 9 settembre, Notturno non è un film sulla guerra, come ha ribadito più volte il regista proprio a Venezia 77, dove lo abbiamo incontrato: "La telecamera non mente mai. C'è una ricerca molto forte delle luce nel film. Raccontare una storia col sole e il cielo azzurro a mezzogiorno ha un senso, raccontarla alle sei del pomeriggio un altro. Raccontarla di notte un altro ancora, con le nuvole o la pioggia è un'altra storia. È un film in cui la metereologia ha un peso. Non è mai stata una scelta casuale. A volte sono passati giorni, settimane, un mese, a volte anche sei mesi, perché l'estate non giravo, montavo e poi tornavo. Volevo che la temperatura, il freddo si sentissero. Le nuvole sono quasi un coro greco. La luce è protagonista, come è protagonista il silenzio. È il racconto cinematografico: metti la cinepresa in un punto e speri che qualcosa accada."
Un viaggio durato tre anni, in quasi totale solitudine: con Gianfranco Rosi soltanto un assistente e, a volte, un autista: "È fondamentale per me avere questa intimità quando giro, anche perché questi sono luoghi in cui non puoi arrivare con una troupe. Spendo molti mesi sul posto, cerco di conoscere le persone che filmo. Meno si è e più si riesce a entrare in contatto con quella realtà. Con una troupe di dieci persone sarebbe stato impossibile fare questo film. Quando giravo non avevo paura, ma ero circondato dall'eco della guerra. Sono stato con persone che dovevano ricucire le propria vita. Non sarei in grado di riprendere la guerra: spari, cose che succedono all'improvviso. Non saprei dove mettere la camera. Ho bisogno di raccontare sempre cose molto piccole, composte, ma in grado di raccontare una storia. Nei miei film infatti non succede mai qualcosa che sorprende: racconto i sussulti interiori. Questo non è un film di guerra: è un film in cui la guerra arriva come un eco."
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