L'uscita in sala del film Run, con Sarah Paulson, riporta alla mente le tante volte in cui sul grande schermo ad essere la protagonista è stata la malattia, fisica o psicologica: l'elenco non è lungo ma sterminato, oltre che inutile. D'altronde, è storia di adesso la dichiarazione di Jim Sheridan che a proposito del suo capolavoro Il mio piede sinistro (che ha dato al protagonista Daniel Day Lewis il primo dei suoi tre Oscar) ha spiegato come oggi non farebbe più la scelta di prendere un attore non realmente disabile per il ruolo. Una scelta importante che apre un dibattito altrettanto imponente: ci basterà però dire che il cinema, fin dai suoi esordi, si è diviso (per semplificare al massimo) tra cinema di finzione e cinema di realtà, tra Lumiere e Meliès. Nel primo caso, l'esercizio cinematografico è di formazione e informazione; nel secondo la malattia - pur sempre rappresentata con fedeltà e dignità - piega a sé i generi cinematografici, racconta una storia, coinvolge emotivamente lo spettatore.
Evitando quindi ogni approccio interno alla questione specifica sollevata da Sheridan, vediamo quelli che secondo noi sono, in ordine assolutamente sparso e certo inesaustivo, i migliori film sulla malattia (fisica o mentale), quelli che l'hanno messa al centro della trama, al fine di utilizzare ed esaltare i toni dei generi cinematografici.
RUN
Per iniziare, quale esempio migliore se non Run? L'esordiente e bravissima Kiera Allen, interprete principale insieme alla Paulson (musa di Ryan Murphy, ormai avviata in una carriera autonoma e luminosa), si serve realmente di una sedia a rotelle nella vita: ma oltre alla specifica correttezza rappresentativa, la Allen riesce a dare grande realismo psicologico alle esigenze di sceneggiatura. Nella storia raccontata dal regista Aneesh Chaganty, Chloe è una ragazza disabile con diverse patologie. Vive insieme ad una madre onnipresente e apparentemente amica e complice. Ma la realtà non è mai come sembra: Run è un ottimo esempio di film high concept sviluppato magnificamente, un esercizio di stile che sfrutta benissimo gli interni per creare una tensione claustrofobica che non abbandona lo spettatore fino (letteralmente) all'ultima scena.
Come dicevamo all'inizio, la condizione di disabilità di Chloe non è trattata dal punto di vista medico - tanto più che a guardar bene il disturbo al centro della trama è più la Sindrome di Munchhausen per procura... -, bensì è perfettamente funzionale alla storia e alle ossessioni d'autore di Chaganty. Che se nel suo primo lungometraggio, Searching, approfondiva le dinamiche del rapporto madre/figlia, in Run mette sotto i riflettori una donna mostrando fino a che punto sarebbe disposta a spingersi per soddisfare il proprio desiderio di maternità colmando un vertiginoso senso di vuoto. Chaganty tratta la materia con i toni tipici dell'horror, usando (senza mai abusare) i suoi luoghi e stilemi tipici, logorando chi guarda con una tensione costruita fotogramma per fotogramma sul viso delle sue magnetiche attrici.
Quella di Run è comunque una storia che non può che riportare alla mente due altri grandissimi film come Misery non deve morire e Che fine ha fatto Baby Jane?.
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HATERS DEGLI ANNI OTTANTA: MISERY NON DEVE MORIRE
Lo scrittore Paul Sheldon ha un incidente sulle montagne del Colorado: a soccorrerlo in mezzo alla neve è una donna, Anne, un infermiera che lo accoglie nella propria casa sperduta curandone le ferite e che si proclama una sua accanita fan. Ma le sue cure nascondono un amore patologico... Il bel film di Rob Reiner del 1990 (che Run omaggia esplicitamente quando chiama uno dei personaggi secondari Kathy Bates... e che a sua volta, in un cortocircuito, echeggiava Alfred Hitchcock) prende un libro di Stephen King e lo trasforma in un thriller spaventoso quanto lineare: dallo scrittore del Maine Reiner aveva anche adattato Stand by me - Ricordo di un'estate quattro anni prima, e la sua eccellenza sta sopra tutto nel trasportare la materia incandescente kinghiana senza mai alterarne il contenuto, e rendendo più fruibili i diversi strati di significato e livelli di lettura.
Se il libro infatti è un caposaldo della letteratura di King, nel momento in cui affronta l'universo creativo e letterario dal punto di vista della scissione della personalità (addirittura aggiungendo e preconizzando in qualche modo la mania tutta moderna di haters e followers di estremizzare i propri sentimenti verso il proprio idolo) il film di Reiner è un dispensatore di tensione. Anche lui opera fortemente high concept e quasi esclusivamente ambientato in una casa, appartiene in maniera assoluta ad una devastante e memorabile Bates, che dà alla sua Anne qualunque tipo di espressione passando dalla tristezza alla follia, dalla dolcezza alla ferocia con un solo battito di ciglia.
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BABY STAR DELL'ORRORE: CHE FINE HA FATTO BABY JANE?
Più indietro nel tempo troviamo invece Che fine ha fatto Baby Jane?, il capolavoro massimo di Robert Aldrich che mette in scena due protagoniste speculari in negativo: la bruna Joan Crawford, costretta su una carrozzella e chiusa in casa dalla bionda Bette Davis, afflitta da una patologia psichiatrica. Nel 1917 la piccola Jane Hudson è una baby star di successo che tiene in ombra la sorella Blanche: anni dopo la situazione si inverte, perché quest'ultima diventa una stella del cinema mentre l'altra, ormai adulta, viene dimenticata. Dopo un incidente d'auto che le vede coinvolte, Blanche perde però l'uso delle gambe e finisce a vivere in una villa isolata di Hollywood, quasi rinchiusa dalla sorella preda di un delirio psicotico, alcolizzata e trasandato, che si rifugia nel vagheggiamento dei suoi successi da bambina.
Stilisticamente raffinato, spietato e commovente insieme, Che fine ha fatto Baby Jane? vive e prospera nei suoi opposti: a partire dalle patologie delle due sorelle (una bloccata fisicamente, l'altra psicologicamente), passando dalla commedia nera e grottesca all'horror attraverso note struggenti, senza rinunciare a plurilivelli autoreferenziali (ben approfonditi nel serial Feud di qualche anno fa ad opera del citato Murphy con Susan Sarandon a rifare la Davis e Jessica Lange a recitare la Crawford). Nella galleria di villain cinematografici partoriti dal disagio psicologico, Jane ha un posto di riguardo fin dall'uscita del film, nato quasi per caso dalla volontà di una delle due attrici protagoniste: e il personaggio è assurto ormai ad archetipo che, nel suo riflettere la società dello spettacolo e la sua decadenza, diventa paradigma di un crollo oggi tanto diffuso perché dovuto al lacerante frantumarsi delle illusioni di fronte al declinare della fama. Il doppio livello di autoreferenzialità con il mondo del cinema è adottato da Aldrich con uno sguardo acido e disilluso che guarda in maniera più ampia alla cultura americana. Cultura ripresa e canzonata fin dalle filastrocche e canzoncine di Jane, simbolo di un intero mondo etico e di valori che si adeguano ad un precisissimo profilo antropologico americano, impregnato di una retorica familista con l'immagine retriva e consolatoria di spettacolo per masse pronte ad intenerirsi per una cosa e dimenticarla l'attimo dopo. Un carnage psicologico che si colora dolorosamente di disperata malinconia.
CLOWN DA PAURA: JOKER
Lo psicodramma è un genere a sé stante. E Che fine ha fatto Baby Jane? in un certo senso faceva anche da ponte tra corpo e mente, con la Davis intrappolata nelle stanze polverose dei suoi pensieri ossessivi e la Crawford immobilizzata sulla sua sedia: i disagi della mente sono trappole vertiginose, e sterminato è l'elenco di film nei quali i protagonisti ne soffrono. Un esempio luminoso e recente è il discusso Joker di Todd Phillips. "C'erano due matti in manicomio, e una notte decisero di scappare...": è questo l'incipit del pluricelebrato romanzo grafico a firma di Alan Moore e Dave Gibbons, The Killing Joke, pietra miliare della letteratura batmaniana nonché storia definitiva e assoluta sul pagliaccio del crimine di Gotham City. Seppur con pochissimi punti in comune (qualche suggestione della trama), proprio quel fumetto fa il paio con il film dal quale poi niente sarà più lo stesso per questa maschera più volte portata sullo schermo, ma che con il film di Phillips presentato in concorso a Venezia 76 si delinea in maniera definitiva.
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Certo non per il film in sé e per sé: Phillips è un regista discreto, un buon artigiano che si è creato la sua fortuna con la trilogia di Una notte da leoni) e che poco o niente ha avuto a che fare con storie drammatiche, se non per qualche trascurabile parentesi. Emerge quindi la sua impreparazione alla costruzione drammaturgica e al sottinteso psicologico, delineato invece solo dal procedere di una trama banale e già vista (mamma delirante, un mondo che non offre altro che soprusi, eruzione di follia e violenza). Succede però che il percorso all'improvviso esploda grazie al protagonista Joaquin Phoenix. Così come il titolo (l'enorme Joker che all'inizio sembra voler uscire dallo schermo, facendo coincidere le sue dimensioni con l'inquadratura), Phoenix riempie letteralmente la scena: presente dall'inizio alla fine, l'attore semplicemente è il film, incarna tutto il meglio che un trattato sulla psicopatologia quotidiana può offrire e riversa sulla scena un magistero interpretativo mostruoso. Passando con disinvoltura tra diversi stati emotivi, apre l'opera di Phillips definendo il verso sonoro del Joker batmaniano, un misto indistricabile di risata e pianto, riecheggiando suggestioni lontane - dal melodramma dei Pagliacci alla malinconia tradizionale dell'arte circense, dalla coulrofobia (la paura dei clown) al più disperato ritratto dell'America delle grandi metropoli che il cinema possa offrire - e vestendo panni e trucco di un personaggio che si fa subito gigantesco. Nel film Joaquin è senza mezzi termini monumentale, enorme, una stella che brucia lentamente e poi scoppia per diventare un buco nero che, nell'oscurità del suo sorriso spaventoso, ingloba tutto e tutti, mentre con un calcio e un ballo grottesco sputa fuori tutto l'orrore e il disgusto sepolti dentro ognuno di noi per un mondo che non sa rispettare più nulla. Seppellendoci con una risata.
PISCOPATOLOGIA DEL CINEMA QUOTIDIANO: A DANGEROUS METHOD
Il triangolo scaleno composto da Sigmund Freud (Viggo Mortensen), Carl Gustav Jung (Michael Fassbender) e Sabrina Spelrain (Keira Knightley), produttore di ossessioni amorose e psicoanalisi, si diffonde come un virus nella filmografia di David Cronenberg, luogo prediletto dove dilaga la malattia: della mente, del corpo, della parola. Il rapporto fra i tre protagonisti viene indagato dal genio di Scanners mentre si dispiegano le pulsioni di amore e morte, con Cronenberg che analizza ancora una volta la fragilità dell'agire anche quando, a livelli culturali elevati, si tenta di lavorare sullo smascheramento delle cause del disagio finendo poi con il precipitarvi. Attento come sempre a vicende in cui siano centrali la complessità dell'essere umano e il coacervo di sentimenti e pulsioni che ne promuovono l'agire, bada anche a non esporre la carne martoriata, e a non mostrare la violenza (tranne che in alcuni passaggi altamente cronenberghiani, come il lenzuolo sporco del primo sangue, o la sodomia riflessa nello specchio), se non quella connaturata nei rapporti sentimentali.
Perché l'Amore è sempre un gioco di potere, e la componente sadomasochista gioca un ruolo non indifferente nella definizione delle figure: discorso che poi si lega indissolubile a quello sull'identità, intesa come principio identificativo della persona e formata da pulsioni e istinti. Il bellissimo, algido e raggelato A Dangerous Method è la deriva realista del cinema sempre più realmente finto di Cronenberg, è un film talmente denso da risultare impenetrabile nella sua essenza, capolavoro assoluto nel mostrare come il segno scritto, la parola, la sovrastruttura sia diventata fin (dai titoli di testa, con l'inchiostro che impregna la pagina) dal Nuovo Secolo, base portante della nostra esistenza, o ambiguamente una delle malattie più diffuse e pericolose.
UOVA E METAFORE: ALIEN
E per concludere, la malattia come metafora in un classico. Cos'è un classico? È qualcosa che non smette mai di avere emozioni da dare, ed è sempre attuale. Il meccanismo è quindi intatto e lucido in Alien del 1979, e se vi state chiedendo cosa c'entri con la malattia è presto detto: l'astronave Cargo Nostromo nello spazio profondo sbarca su un pianeta misterioso, dove imbarca per errore una forma di vita aliena, che si rivelerà terribilmente letale per tutto l'equipaggio. Nato dalla mente di un vero e proprio genio, ovvero sir Ridley Scott, il primo Alien ebbe un effetto devastante sul Genere e sul Cinema. Il futuro messo in scena nel film non ha la silenziosa solennità del Kubrik di 2001: Odissea nello spazio, né la malinconia livida di pioggia del venturo Blade Runner; perché il capolavoro (uno dei tanti) del creatore di I Duellanti è atipico, è un'opera che devasta da dentro.
In una fantascienza che si mescolava indissolubilmente con l'orrore, la Nostromo è quasi un essere vivente e i suoi corridoi stretti e bassi sono le vene, le arterie, il luogo dove l'infezione - l'alieno - è libera di scorrazzare infettando e uccidendo. Alien spiazzò e ammaliò, perché la nuova fantascienza che offriva era lo spazio immenso che si apre nel buio dentro noi stessi: fu infatti uno dei primi episodi di sci-fi al cinema che pur se ambientato nello spazio aveva un'azione che si svolgeva quasi esclusivamente dentro. L'alieno è il Male che viene da dentro, l'alieno risveglia il Male e le paure archetipali che abbiamo dentro. Il mostro sublime, terrificante (non ha gli occhi: non sai mai dove guarda) e bellissimo travolge la sessualità così come il film porta con sé un equipaggio de-genderizzato e asessuato insieme ad immagini e paesaggi che mettono in scena metafore sessuali: in questo modo, Alien preconizzava l'incubo dell'Aids, che su scala pandemica sarebbe iniziato pochi mesi dopo, nel 1981, quando fu riconosciuta l'esistenza di una nuova malattia in realtà già presente da anni ma sempre scambiata per qualcos'altro.