Che cos'è un'opera classica? È una congiunzione dei tempi passati e allo stesso tempo un loro superamento. Un'opera classica è la perfetta summa di vizi e virtù dell'essere umano, un bagaglio di sogni e paure in cui tutti possono identificarsi. I film, luce proiettata come un sogno nel buio della sala, rinchiudono timori atavici e desideri inconfessabili; gli attori sono contenitori a cui affidare i nostri dolori e le nostre confessioni, lasciando che siano i loro personaggi, fantasmi di celluloide e spettri fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i nostri sogni, a soffrire e piangere per noi.
Ma un film classico ha qualcosa di speciale; nella sua semplicità narrativa, parla a tutto il pubblico in una lingua comune, travalicando così il tempo e lo spazio. Gli anni passano, ma l'unicità di un film classico resta. I sorrisi che strappava negli anni '30 del Novecento sono gli stessi di oggi; le lacrime che irrigavano il viso dello spettatore di una piccola sala del 1960, non divergono poi molto da quelle del pubblico di un multisala super tecnologico. Il loro è un abbraccio universale, uno scossone ricolmo di paura, o un "ci vediamo dopo" senza data di scadenza. Secondo i manuali di cinema, quello del "periodo classico" è un arco temporale che abbraccia circa quattro decenni: dal 1927 al 1963.
Fedeli, ma non troppo, alle nozioni apprese, ci ancoriamo a questo periodo temporale per stilare la classifica dei migliori film classici da vedere assolutamente prendendo in esame anche opere cardini del cinema moderno e d'autore, ora più che mai considerati grandi classici del cinema mondiale.
1. ACCADDE UNA NOTTE (1934)
Lei (Claudette Colbert) è un'ereditiera ribelle decisa a liberarsi dalle fila che la tengono prigioniera di un contesto famigliare che le impedisce di sposare l'uomo che ama. Lui (Clark Gable) è un giornalista furbacchione sempre alla ricerca di un qualche fruttuoso scoop. I due, insieme, daranno vita a un'esilarante avventura on the road giocata sulle dicotomie e i pregiudizi di genere per affidare a ogni risata uno spunto di riflessione su cui meditare. Frank Capra, il regista dell'ottimismo, con Accadde una notte instaura il prototipo della commedia classica americana. Sfruttando appieno l'imperativo di "una storia semplice per gente semplice" il regista e lo sceneggiatore Robert Riskin adattano per il grande schermo il racconto Night Bus di Samuel Hopkins Adams riuscendo a camminare in equilibrio sul filo della commedia romantica e poetica, senza per questo cadere nel facile sentimentalismo. Il resto è storia.
2. TEMPI MODERNI (1936)
Ancor prima di avvicinarsi al mondo del cinema, capita spesso che molti studenti facciano la conoscenza di Charlie Chaplin quando, a fianco al paragrafo dedicato alla catena di montaggio e al Taylorismo, si imbattono in una scena tratta da Tempi Moderni. Sta qui, in questo piccolo dettaglio, la portata universale e storica del film di Chaplin. Realizzato quando il sonoro era già una tecnica consolidata, il regista e interprete continua a sfruttare i tempi e i ritmi del cinema muto. Questo non significa sacrificare la colonna sonora, ma anzi, impiegarla in maniera intelligente ed empatica per enfatizzare l'epopea personale di Charlot, da semplice operaio a meccanismo impazzito di una catena di montaggio. Un classico intramontabile, Tempi Moderni, giocato su una sequela di gag irresistibili che si fanno portatori metaforici e audiovisivi di tematiche serie come le conseguenze drammatiche della depressione e la disumanizzazione di lavoratori sul baratro della pazzia, spinti nel burrone da una forsennata reiterazione manovale e produttiva.
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3. SUSANNA! (1938)
Da gigantesco flop a caposaldo delle screwball comedies: è Susanna! di Howard Hawks, film del 1938 con protagonista una delle coppie attoriali più frizzanti e ben consolidate che il cinema ci abbia mai regalato, ossia quella formata da Cary Grant e Katharine Hepburn. Guerra tra i sessi, equivoci e situazioni esilaranti portate a livelli estremi: tutto in questo film si incastra alla perfezione in un puzzle solidissimo e senza tempo capace di strappare ancora fragorose risate.
4. IL MAGO DI OZ (1939)
Era il 1937. Al botteghino Walt Disney la fa da padrone grazie allo straordinario successo di Biancaneve e i sette nani. Per tutta risposta Louis B. Mayer decide di partire al contrattacco, mettendo il proprio staff alla ricerca di un libro per bambini destinato a eguagliare il successo disneyano. Da questa gara prenderà corpo uno dei capolavori del cinema: Il mago di Oz. Rinchiusa inizialmente tra i confini delle pagine dell'opera di Frank Baum, l'avventura di Dorothy (Judy Garland) e del suo cane Totò, coadiuvati dall'indimenticabile trio di eroi extra-ordinari (il leone, lo spaventapasseri e l'uomo di latta) prende ora il largo sullo schermo, colorando di sorpresa ed eterna poesia gli occhi dei propri spettatori di ieri, oggi e domani. La fama dell'intreccio precede la stessa pellicola, forte anche di una colonna sonora che ci ha regalato uno dei brani più famosi di tutti i tempi come "Over the Rainbow". Il passaggio da una vita apparentemente ordinaria e senza colore, a una piena di avventure, in lotta tra bene e male, non è una semplice fiaba per bambini: è una metafora dolce e poetica dell'eterno conflitto che si combatte dentro di noi, soprattutto in quel delicato passaggio che ci separa dall'infanzia all'età più adulta. Imperdibile.
5. VIA COL VENTO (1939)
Alzi la mano chi non ha mai sentito, o pronunciato, battute come "dopotutto domani è un altro giorno" e "francamente me ne infischio". Come immaginavamo; nessuna mano alzata all'orizzonte. Tratto dall'omonimo romanzo del 1936 di Margaret Mitchell, Via col vento si è da subito guadagnato un posto d'onore tra i film classici della storia del cinema. La storia d'amore tra Rossella O'Hara e Rhett Butler sullo sfondo della Guerra di Secessione americana ha conquistato il cuore degli spettatori sin dal 1939. Con il passare degli anni il film di Victor Fleming ha saputo custodire con cura quei cuori, per poi far sempre spazio a sguardi sognanti di nuovi appassionati. Come il Sud uscito sconfitto dalla guerra, così il mondo di Rossella (una magnetica Vivien Leigh) è crollato, indebolito da un amore sprecato per un uomo sbagliato e la perdita del suo unico vero amore. Un addio sprezzante, indimenticabile, quello di Rhett, impresso ormai nella memoria collettiva, ma a cui la donna saprà ben presto rialzarsi. Dopotutto domani è un altro giorno.
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6. OMBRE ROSSE (1939)
Nuovo Messico 1880: una diligenza lascia una città per raggiungere un forte. I passeggeri sono una prostituta, un commerciante di liquori, un banchiere, una donna incinta, un giocatore, un medico alcolizzato, uno sceriffo e un evaso dal carcere (sebbene innocente) colmo di vendetta dal nome di Ringo (John Wayne). Quelli immortalati dalla cinepresa di John Ford in Ombre Rosse sono ritratti di una gallieria umana volti a rappresentare sentimenti ed emozioni tipicamente umani - e per questo senza tempo - quali i pregiudizi, il coraggio, la vendetta, la paura e il dolore. Il tutto avvolto da uno strato leggero di avventura epica che va a impreziosire un film destinato all'immortalità.
7. QUARTO POTERE (1941)
"Rosabella". Basta un sospiro, una parola soffocata dalla morte imminente, ed ecco che la vita di Charles Foster Kane diventa una e centomila sfumature di altrettanti quadri dipinti con la forza di ricordi più o meno veritieri, recriminazioni, dolori, rimpianti. Il protagonista, elemento imprescindibile nello sviluppo narrativo di un intreccio classico, diventa ora un fantasma, fantoccio da distruggere e demolire. È un viaggio a ritroso quello narrato da Orson Welles nel suo Quarto Potere, uno dei film più amati, studiati e apprezzati non solo dagli spettatori contemporanei, ma dagli stessi registi che lo innalzano a opera da emulare, analizzare, copiare. Eppure alla sua uscita, il film di debutto di Welles fu denigrato, distrutto, o più semplicemente non compreso. Già perché proprio come la morte del suo protagonista a inizio opera, il regista ha predetto la morte del cinema classico, a favore di un'opera più personale, più autoriale, più moderna.
8. CASABLANCA (1942)
L'amore vero, incondizionato, spento come una flebile fiamma da responsabilità a cui è impossibile sottrarsi e ordini da eseguire. E così, in un mondo offuscato nel suo raziocinio e illuminato da lampi bellici, l'unica cosa che si può fare è consolarsi tra le braccia di un ricordo impossibile da eliminare. Così sarà per Ilsa (Ingrid Bergman) e Rick (Humphrey Bogart) in Casablanca, ai quali non rimarrà che il ricordo di un amore solo sfiorato a Parigi a consolarli nel buio della guerra. Sono soprattutto le innumerevoli citazioni e rimandi meta-cinematografici a confermare l'eternità di un mito che dopo quasi ottant'anni continua a far sognare, sull'onda di un ricordo e di un amore mai veramente finito.
9. LA FIAMMA DEL PECCATO (1944)
Se si dovesse pensare ai titoli più rappresentativi del genere noir, oltre a Il grande sonno di Howard Hawks, a far la sua comparsa, circondato da nuvole di fumo e boccate di sigarette, sarebbe sicuramente La fiamma del peccato di Billy Wilder. Strutturato come un lungo flashback a partire da un prologo impossibile da dimenticare ("non ho avuto i soldi e non ho avuto la donna" dice il moribondo Walter), la pellicola vive dei retaggi lasciati su carta da autori hard-boiled come Raymond Chandler (qui sceneggiatore) e James M. Cain (dal cui romanzo l'opera prende le mosse) che di tale genere sono stati capostipiti. Le ambientazioni cupe, la dark lady misteriosa e letale, le ombre che possenti si stagliano sulle pareti, l'uso di inquadrature angolate e trasudanti un nauseante senso di misantropia, le luci soffuse e la nebbia onnipresente, diventano elementi riconoscibili di un genere pronto a dilagare con la stessa forza di una pallottola sparata a bruciapelo. Erede legittimo del tipico cinismo di Billy Wilder, La fiamma del peccato è uno sguardo nichilista e di autentico orrore verso un'umanità degradata che solo la morte può liberare dal proprio peccato.
La fiamma del peccato: come Billy Wilder ha reinventato il cinema noir
10. VIALE DEL TRAMONTO (1950)
Joe Gillis (William Holden) è uno sceneggiatore di Hollywood in profonda crisi d'ispirazione. Per sfuggire agli esattori finisce in una casa abitata da Norma Desmond (Gloria Swanson), vecchia gloria del cinema muto. Joe accetta di rivedere un terribile copione che la diva sta scrivendo, sognando un clamoroso ritorno sul set. Eppure qualcosa lo turba. Sarà l'atmosfera spettrale della casa nera, buia, quasi mortale; o l'ossessione della diva del proprio glorioso passato? O forse la presenza di ospiti che come mummie sopravvissute (tra cui Buster Keaton) passano il tempo a giocare a carte senza apparente divertimento. Sta di fatto che alla fine i timori di Joe troveranno conferma. Lo dimostra il fatto che l'intera vicenda è raccontata in analessi da lui stesso, narratore in voice-over proveniente dall'aldilà. Già perché in quella grande casa lo sceneggiatore troverà la morte, mentre Norma, in preda alla pazzia, attende il suo ultimo, glorioso, primo piano.
Viale del tramonto è un capolavoro sorretto da una struttura meta-filmica che parla di cinema in tutti i suoi infinitesimi dettagli: i discorsi sulle sceneggiature, la vita degli studi, la tragica nostalgia del cinema muto ("noi eravamo grandi, è il cinema che è diventato piccolo" afferma perentoriamente Norma), la presenza di De Mille e del mitico cancello d'ingresso della Paramount. Tutto in Viale del tramonto concorre a dar forma a una pellicola che parla di un passato glorioso che sebbene andato non ha mai cessato di esistere; un'epoca, quella del muto, che ha permesso di scrivere una pagina immortale della storia del cinema, ancora una volta firmata da Billy Wilder.
11. UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO (1951)
Non solo un melodramma tratto dalla piace teatrale di Tennesse Williams. Negli anni Un tram chiamato desiderio è diventato qualcosa di più. È uscito dai confini delle sale cinematografiche per abbracciare le vesti del mito. Una pellicola iconica, come iconico è diventato il suo protagonista, un Marlon Brando sudato, in preda al proprio istinto predatorio, colto con la sua maglietta madida di sudore e sporcizia. Ad affiancarlo una fragile, quanto straordinaria Vivien Leigh. La bellezza di un film come quello diretto da Elia Kazan sta tutta nella sua essenzialità: la semplicità degli spazi domestici fanno della storia una perfetta trasposizione dai rimandi teatrali, investendo ogni azione, espressione, o minimo gesto, di crudo realismo. Un'umiltà degli spazi che si oppone alla profondità dei sentimenti, pronti a scaturire in triangoli amorosi, attrazioni ferine e rappacificazioni improvvise.
12. CANTANDO SOTTO LA PIOGGIA (1952)
Basta una leggera pioggia che ci coglie lungo il nostro cammino verso casa, ed ecco farsi largo nella nostra mente una canzone prima flebile, poi sempre più forte e dal ritmo incalzante. L'istinto prende il sopravvento e in men che non si dica, eccoci a far ruotare l'ombrello, aggrapparci al palo più vicino mentre le nostre labbra iniziano a canticchiare "I'm singin' in the rain, just singin' in the rain". È la forza del cinema, quella di insidiarsi in ogni cellula infinitesimale del nostro corpo controllandoci e spingendoci a emulare un personaggio come quello di Don Lockwood (Gene Kelly) in quello che è tutti gli effetti uno dei più bei musical di sempre: stiamo parlando ovviamente di Cantando sotto la pioggia, massima espressione di Gene Kelly (attore, regista, cantante, coreografo e ballerino, insomma il più grande one-man-show del cinema) capace di non perdere nemmeno un milligrammo della freschezza che lo ha caratterizzato sin dalla sua uscita nelle sale nell'ormai lontano 1952.
13. VACANZE ROMANE (1953)
A fare di Vacanze Romane uno dei più grandi film classici della cinematografia americana non è solo la dolcezza dei suoi temi e l'eleganza dei suoi personaggi, e nemmeno la bellezza di una città come Roma. "Vacanze Romane", film del 1953 di William Wyler con Gregory Peck e Audrey Hepburn nel suo primo ruolo da protagonista, si fa latore di un concetto tanto assodato, ma a volte dimenticato, come quello di "libertà". La fuga della principessa Anna tra le vie di Roma in sella a una Vespa, senza cavallo o principe, è un trattato sulla voglia di indipendenza, soprattutto femminile. È il desiderio di una ragazza di essere se stessa, anche solo per un giorno, di sentire il proprio cuore battere per un uomo non impostole da altri, di andare dove vuole, di scoprire da sola le bellezze della città eterna, di tagliarsi perfino i capelli. Sono passati quasi sessant'anni dalla prima italiana di Vacanze Romane, eppure il tempo sembra ogni volta sospendersi; resta immutato, a ogni visione, quel dolce brivido ribelle di sentirsi in balia degli eventi. Una sensazione che andrà a sugellare un epilogo malinconico che proprio nella sua natura antitetica alla spensierata allegria di numerose gag, rende più umano, e immortale, il film di William Wyler.
14. LA FINESTRA SUL CORTILE (1954)
Una lunga carrellata parte dal volto sudato di un uomo in carrozzina (James Stewart) per poi passare in rassegna l'unico spettacolo a cui può egli accedere attraverso gli obiettivi della propria fotocamera. Sono le vite che scorrono dei propri vicini, sprazzi di esistenze divergenti, flash di un microcosmo che racchiude in sé ogni tipo di realtà umana: c'è la ballerina single, la coppia di neo-sposini, la donna sola, e perfino un presunto omicida. Apoteosi della soggettiva elaborata in ogni sua versione (panoramica, raccordo sull'asse), La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock è molto più che un thriller. Complice la claustrofobica ambientazione domestica, il film è un pamphlet scritto con la forza della cinepresa sull'atto del guardare e dello spiare, lo stesso atto che compie Jeff con il proprio teleobiettivo, ma anche quello eseguito dallo spettatore in sala che, seduto sulla sua poltrona, accede alla vita di uomini e donne colti nella loro intimità o (stra)ordinaria esistenza.
15. A QUALCUNO PIACE CALDO (1959)
"Nessuno è perfetto", ma ci sono film che perfetti lo sono davvero. A qualcuno piace caldo, commedia del 1959 diretta da Billy Wilder, è una di questi. Commedia degli equivoci, di mascheramenti, e una punta di suspense, il film di Wilder parte da un evento tragico, come il massacro della notte di San Valentino di cui i due protagonisti (Jack Lemmon e Tony Curtis) si fanno involontariamente testimoni, per dare vita a una caccia all'uomo ricca di gag e momenti esilaranti. Costretti a fuggire dalle grinfie del temibile Ghette, ai due non resta altro che travestirsi da donne ed entrare in una band al femminile pronta a partire per la Florida. Nei panni di Dafne e Josephine i due cascheranno ai piedi dell'affascinante Sugar Kane (Marilyn Monroe) mettendo al rischio la propria copertura. Come un abile burattinaio, Wilder giostra con maestria i propri attori, guidandoli tra i cunicoli più stretti di un gioco fatto di dissimulazioni e continue finzioni multiple (Joe e Jerry che diventano Josephine e Dafne; Joe che si trasforma in Shell Junior; Sugar Kane che si spaccia per ciò che non è) regalando al pubblico di ieri, oggi e di domani un classico senza tempo.
16. I 400 COLPI (1959)
Sebbene distante dalle direttive impartite dai grandi teorici del tipico cinema narrativo classico hollywoodiano, I 400 colpi è considerabile, di diritto, come uno dei grandi capolavori del cinema mondiale. Manifesto della Nouvelle Vague francese, il film di debutto di François Truffaut (e il primo in cui compare il suo alter-ego Antoine Donel) è un inno in parte autobiografico alla libertà dell'infanzia sullo sfondo dello stesso quartiere in cui il regista è nato. Debitore del cinema di Roberto Rossellini, Truffaut fa della propria cinepresa un occhio che tutto registra e tutto coglie, senza filtri ma in maniera immediata, viva, realista, quasi tangibile. Come Geppetto, Truffaut fa del suo Doinel un bambino reale, che corre, fugge, vive della coercizione del riformatorio per poi agguantare la felicità sotto forma di onde del mare nell'ultima magica sequenza.
I 400 colpi: François Truffaut e la "nuova onda" del cinema
17. FINO ALL'ULTIMO RESPIRO (1960)
Fino all'ultimo respiro è molto di più del semplice film con cui gli accademici fanno partire la corrente della Nouvelle Vague. Il film diretto da Jean-Luc Godard è un momento di rottura, il manifesto dell'autorialità, la testimonianza visiva del rito di passaggio tra il cinema classico a al genio dei registi, fatto di lunghi piani sequenza, scavalcamenti di campi, sguardi in camera e le interpellazioni dirette allo spettatore. La fuga di Michel (Jean-Paul Belmondo), che vive in una bolla sospinta dal mito dei gangster movie e di Humphrey Bogart, è un primo capitolo di quel saggio sulla rivendicazione degli estri creativi dei registi, ora liberi da catene saldate dal fuoco delle regole canoniche classiche, e canovacci sempre uguali da seguire.
18. LA DOLCE VITA (1960)
Che sia una via Crucis, o una nuova commedia dantesca, La dolce vita di Federico Fellini è prima di tutto uno dei capolavori della cinematografia italiana. Figlio di celluloide nato in grembo a un periodo di straordinaria fortuna per il cinema nostrano, il film di Fellini attraverso la figura del giornalista Marcello (Marcello Mastroianni) si fa guida non troppo involontaria di questo microcosmo fatto di ricchezza, lusso e vuota frivolezza che si espande tra le vie della dolce vita romana. Caduta nell'inferno di una città abbagliata dai flash dei paparazzi e dall'aura divina delle star che la attraversano, ognuna delle sette grandi stazioni che compongono La dolce vita fanno di questo film una corsa verso il nulla, una spogliazione della felicità effimera e illusoria del successo. Sospeso tra sogno, poesia e spettacolo, il film di Fellini è un trattato sulle conseguenze di una città che si lascia accecare dalla potenza dei fuochi fatui di un sistema celebrativo pronto a consumarsi come le fiamme di un fiammifero. Una trasfigurazione della realtà che Fellini, attraverso il personaggio di Marcello (flaneur delle vie romane) tenta di denunciare, offrendo una delle sue opere più amate e conosciute al mondo.
19. IL SORPASSO (1962)
A volte basta un solo giorno per cambiare completamente la vita delle persone. Quel giorno per il giovane studente universitario Roberto Mariani (Jean-Louis Trintignant) è il caldo Ferragosto del 1962. Dopo il suo incontro con Bruno Cortona (Vittorio Gassman) tutto cambierà, e tra le ore passate sul sedile passeggero della Lancia Aurelia B24 di Bruno, soste e rifocillamenti lungo la via Aurelia, e i confronti generazionali sullo sfondo di una Roma deserta in piena giornata festiva, la sua vita prenderà una svolta netta e tragica. Affresco cinematografico di un'Italia nel pieno del suo miracolo economico, e antesignano italiano del road-movie, Il sorpasso di Dino Risi è un'opera di rara perfezione e delicata - ma caustica - ironia. Così diversi, eppure così complementari, i due protagonisti sfruttano la capacità attoriale dei propri interpreti, prendendo vita in una caratterizzazione sincera e sempre attuale. Chiunque, ancora oggi, può ritrovarsi nel timido sguardo di Roberto, o nelle secche invettive di Bruno, che con onestà di pensiero distrugge uno a uno i vari cliché che si erano impossessati nella mente di un giovane universitario tutta teoria e poca pratica. E così nell'arco di 24 ore Roberto assapora la vita, quella da vivere, da apprezzare, da cantare e amare fino all'ultimo, fatale, sorpasso.
20. IL GATTOPARDO (1963)
Quella compiuta da Luchino Visconti con il suo Gattopardo non è una semplice operazione di trasposizione cinematografica di un classico della letteratura come l'omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi da Lampedusa. Il regista studia, scava a fondo della memoria storica per poi reinserirla nel contesto del presente. Visconti traduce così visivamente la raffinatezza di un ambiente aristocratico in decadenza posto all'interno di un discorso politico abbigliandolo di attualità; un mondo che, come ricorda Tancredi (Alain Delon), vive della massima del "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi". Abitato da morte e decadenza, sensualità e giovane ribellione, Il gattopardo è un film senza tempo, capace di parlare una lingua universale e ancor oggi attuale, dove tutto è veramente cambiato, per rimanere com'era.