Recensione In Good Company (2004)

Il film si dimostra una piacevole sorpresa, che tiene bene il ritmo e intrattiene lo spettatore senza annoiare e soprattutto con accenni a temi che danno un tocco di spessore in più alla solita commedia hollywoodiana.

Meglio soli che male accompagnati

Presentato in concorso al 55° Festival Internazionale del cinema di Berlino, In Good Company è la quarta opera di Paul Weitz, già conosciuto per i precedenti About a Boy - Un ragazzo e American Pie. Per la prima volta da solo alla regia e alla sceneggiatura (il fratello Chris Weitz qui figura solo come produttore), Weitz dimostra con questo film di aver raggiunto una maggiore maturità come autore e padronanza stilistica nella costruzione e gestione della storia.

Protagonista del film è Dan Foreman (un Dennis Quaid non al suo meglio), responsabile vendite di una grossa impresa, che viene rimpiazzato da un giovanissimo Carter Duryea (il bravissimo Topher Grace). Accanto a loro, la bellissima Scarlett Johansson, che continua la sua serie di prove convincenti, e la televisiva Marg Helgenberger, nota al pubblico italiano per la sua parte nella serie C.S.I. - Crime Scene Investigations, senza dimenticare un cameo di Malcolm McDowell; un cast che, diretto con brio da Weitz, rappresenta bene il duplice contrasto tra Carter e Foreman (quello generazionale nei confronti del giovanissimo nuovo boss, e quello con il Foreman padre che non vede di buon occhio la relazione tra Carter e la figlia Alex), contrasto che dà vita a vivaci e divertenti sequenze che non sfociano mai nella banalità.

I due principali pregi del film, attori e sceneggiatura, sono accompagnati da un contorno all'altezza, producendo un'opera di discreto livello in tutti i suoi aspetti, dal montaggio alla scelta delle canzoni di accompagnamento.

Un film, quindi, che si dimostra una piacevole sorpresa, che tiene bene il ritmo e intrattiene lo spettatore senza annoiare e soprattutto con accenni a temi che danno un tocco di spessore in più alla solita commedia hollywoodiana, criticando l'arrivismo e la frenesia che impera nella società contemporanea, le nuove tendenze dell'economia e della gestione di impresa, ammonendo sull'importanza di prendersi il tempo necessario per trovare la propria strada nella vita, vivendo la propria età senza sentire l'esigenza di bruciare le tappe.
Nemmeno nel finale Weitz si lascia andare a un totale e forzato happy ending, che gli avrebbe fatto perdere inevitabilmente punti, ma riesce a chiudere con delicatezza almeno uno dei fili che compongono l'intreccio.

Movieplayer.it

3.0/5