Sorrisi distesi, pacche sulle spalle, volti sereni. Pierfrancesco Favino e Lorenzo Richelmy si presentano così, cordiali e affiatati, ma chi ha visto Marco Polo non si lascia ingannare tanto facilmente. No, perché i loro personaggi sono tutt'altro, sono un padre che non sa di esserlo e un figlio subito abbandonato, sfruttato come pedina, merce di scambio per migliori interessi. Sulla scia di un rapporto che vive soprattutto di assenze e di enormi distanze, i loro Marco (Richelmy) e Niccolò Polo (Favino) rappresentano il fulcro drammatico di una delle produzioni Netflix più ambiziose di sempre (la prima stagione è costata 90 milioni di dollari). La seconda stagione di Marco Polo, in arrivo il 1° luglio e girata tra Ungheria, Slovacchia e Malesia, promette di espandere ancora di più l'avventura estrema raccontata dal mercante veneziano nel suo Il Milione, ma soprattutto di addentrarsi ancora di più all'interno dei personaggi.
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Come in un grande affresco dall'ampio respiro epico, Marco Polo fa della coralità la sua cifra stilistica, segnato da intrighi di corte e da uno sguardo aperto verso la cultura mongola e cinese; eppure tutto parte da loro: da Niccolò e Marco. Da un padre che lascia il figlio nelle mani dell'imperatore mongolo Kublai Khan, nipote di un certo Gengis Khan. Ed è proprio da qui che siamo salpati, da Favino e da Richelmy, felici di condividere con noi tutto il buono e il marcio celato in questo lontano (eppure vicinissimo) Medioevo asiatico.
Il gelo tra i Polo
Prima di questa intervista abbiamo avuto la possibilità di vedere in anteprima quattro delle dieci puntate che andranno a comporre la seconda stagione di Marco Polo, e abbiamo conferma di un aspetto: Niccolò Polo, questo padre riluttante e controverso con il volto burbero di Pierfrancesco Favino, è un personaggio che aleggia nello show, di cui si avverte l'assenza negli occhi di un figlio inizialmente spaesato, e la cui rara presenza diventa sempre decisiva per l'evoluzione dello stesso Marco. Un tema, quello della paternità, che Favino spiega così: "Quello della paternità è un concetto moderno, perché prima non si dava grande importanza a questo ruolo, ai doveri e alle responsabilità che ciò comporta per un uomo. Il bello di questa serie è che evita subito qualsiasi cliché sull'essere padri, perché Niccolò non sa di esserlo e si ritrova davanti questo figlio adolescente quasi per caso, per cui il loro rapporto evade dagli schemi classici e si sviluppa in maniera più spontanea. Nella seconda stagione il mio personaggio ritornerà in modo molto inatteso e troverà un Marco diverso, dall'identità più solida; un cambiamento che infastidirà parecchio suo padre".
Richelmy conferma la fondamentale importanza della figura paterna nello show: "Per un figlio un padre è prima di tutto un esempio e nella serie Marco ne ha persino due: Niccolò e Kublai Khan. Entrambi si ritrovano alle prese con un ragazzo inaspettato, con il quale costruire da zero una relazione contaminata da tante difficoltà". Poi, papà Polo tuona e sentenzia: "Signori, ma questo è Amleto, questo è uno dei più grandi archetipi della storia dell'umanità e ogni grande storia vive di questi rapporti".
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Per un Milione di motivi
Secondo uno studio condotto da Netflix sui suoi abbonati, Marco Polo è mediamente tra le serie più gradite in tutto il mondo, particolarmente predisposta al binge-watching compulsivo. Le ragioni di questa attrattiva, secondo Favino, sono lampanti: "Prima di tutto c'è da considerare un evidente piacere estetico. Marco Polo è una serie bella da vedere, che ti riempie gli occhi. I costumi, le scenografie, i paesaggi, la fotografia, sono tutti aspetti curati in modo maniacale che restituiscono immagini bellissime. Poi c'è una complessità tematica molto densa, piena di intrighi, giochi di potere e politica, uniti da una saga familiare che avvicina i personaggi agli occhi del pubblico. Tra l'altro siamo spesso abituati a vedere storie ambientate in un Medioevo a noi vicino, come quello europeo, invece qui siamo dall'altra parte del mondo, per cui c'è anche il fascino del nuovo, dell'esotico, di una porzione di mondo che molti di noi non conoscono bene. E poi c'è un elemento fondamentale, ovvero la capacità di questa serie di specchiarsi nel contemporaneo. Pensandoci bene, quello del Grande Khan è uno dei più grandi tentativi di globalizzazione mai visti nella storia dell'uomo".
Un Lorenzo Richelmy particolarmente appassionato, quasi fosse più uno spettatore che il protagonista della serie, continua: "Nella serie c'è un fortissimo senso di realismo, una credibilità storica che aiuta lo spettatore a calarsi in un contesto ricreato alla perfezione. Poi, sì, lo spettacolo per gli occhi è assicurato dal fatto che sia tutto vero, non c'è green screen, ma soltanto paesaggi bellissimi. Tra la prima e la seconda stagione abbiamo viaggiato tantissimo, tra Kazakistan, Malesia, Slovacchia e Ungheria. Come diceva Pierfrancesco, l'attualità dei temi trattati lo rende un prodotto molto interessante da seguire. Su tutti c'è senza dubbio il confronto/scontro culturale tra Occidente e Oriente".
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Tra storia e mito
Per essere Marco Polo, per essere parte fondamentale di una produzione così grande e impegnativa, il ventiseienne Richelmy (che per i tanti impegni non è nemmeno riuscito a ridoppiarsi in italiano) ha assorbito la storia dell'avventuriero veneziano. E ne parla con sincero trasporto: "Il ritorno in patria di Polo è stato molto spiacevole. Pensate che quando era in punto di morte, davanti alle sue figlie, tutti gli davano del bugiardo. Le figlie gli chiesero espressamente se i suoi racconti fossero veri e lui disse di aver raccontato solo metà delle cose che aveva visto. Ecco, noi ci muoviamo da lì, dall'altra metà non raccontata. Al di là del rispetto storico, questa porzione scoperta ci concede una licenza poetica che ci permette di esplorare nuovi rapporti o di inserire elementi più spettacolari, come le bellissime scene di kung fu".
Sull'equilibrio tra realismo e fiction, Favino difende la libertà creativa del racconto cinematografico, perché secondo lui questo Marco Polo assomiglia proprio ad un unico, lungo film, dove la continuità narrativa è serrata e imprescindibile: "Se tutto fosse vero, saremmo davanti ad un documentario, invece qui c'è la sacrosanta libertà del cinema di aggiungere altro, di inventare, in modo da coinvolgere il pubblico. Per storie che scavano così tanto nell'antichità, poi, è interessante adottare un punto di vista nuovo, che metta in luce aspetti vicini alla nostra realtà. Marco Polo fa tutto questo, comprimendo alla perfezione potenza, credibilità e spettacolo".
Come già successo ad ottobre in occasione del lancio italiano di Netflix, Favino fa emergere il suo lato da spettatore e da abbonato: "Quando guardo qualcosa su Netlfix, io voglio essere intrigato, interessato, sorpreso, ma soprattutto divertito. Un po' di sano intrattenimento che ti renda felice di quello che hai visto. Se non ti piace, invece, hai davanti a te un catalogo infinito dove trovare quello che vuoi". Insomma, anche quando il ruolo lo infanga con una buona dose di negatività, Favino emerge lo stesso, come grande interprete e come perfetto, involontario testimonial.