"If it keeps on rainin', levee's goin' to break / When the levee breaks I'll have no place to stay", recita la voce di Robert Plant nell'incipit della mitica When the Leeve Breaks, storico brano rivisitato dai Led Zeppelin nel 1971, il cui memorabile groove risuona sui titoli di coda de La grande scommessa. E nel contesto del film, quei primi versi sembrano assumere un nuovo, sinistro significato: "Se continua a piovere, la diga finirà per rompersi / Quando la diga si romperà non avrò alcun rifugio".
Nell'estate del 2008, la diga effettivamente si è rotta. Una rottura improvvisa, in apparenza, a cui ha fatto seguito un'inondazione di proporzioni inaudite, tale da provocare danni mostruosi all'economia mondiale. Wall Street, il gigante dai piedi d'argilla, è stata travolta da questo incontrollabile "effetto domino", provocato dalla perdita di valore dei mutui subprime e dal conseguente fallimento di alcuni fra i principali istituti bancari statunitensi, mentre un'intera civiltà si interrogava sulla fragilità di un sistema economico che di colpo rivelava la propria intrinseca debolezza.
C'è del marcio a Wall Street
Gli anni immediatamente precedenti a quel colossale disastro finanziario sono l'oggetto della narrazione de La grande scommessa, opera ispirata al libro inchiesta The Big Short, pubblicato nel 2010 dal giornalista Michael Lewis, già autore, fra l'altro, di due saggi a tema sportivo da cui poi sarebbero stati tratti i fortunatissimi film The Blind Side e L'arte di vincere - Moneyball. A firmare e dirigere la pellicola è Adam McKay, ex autore per il Saturday Night Live e noto finora come regista di commedie demenziali per Will Ferrell, pronto per il "salto di qualità" verso un progetto assai più ambizioso: come trattare sul grande schermo, in maniera specifica e dettagliata, una materia tanto complessa? Una scommessa (per l'appunto) che McKay supera brillantemente, costruendo un impianto narrativo particolarissimo: un affresco corale, suddiviso su differenti storyline, in cui finzione e documentario sembrano mescolarsi senza soluzione di continuità, fra spunti di straniamento brechtiano (la costante infrazione della "quarta parete") e parentesi 'didattiche' affidate a camei di celebrità quali Margot Robbie e Selena Gomez.
Una scelta analoga, per certi versi, a quella adottata due anni fa da Martin Scorsese per uno dei suoi capolavori: quel The Wolf of Wall Street in cui il mondo dell'alta finanza costituiva la cornice del parossismo vitalistico e dei deliri di onnipotenza del broker Jordan Belfort. Se nel film di Scorsese il dramma dell'ascesa e caduta di Belfort si consumava ai ritmi di una scatenatissima black comedy, anche La grande scommessa si serve della comicità come di un veicolo per smascherare l'assurdo: allora si trattava della "brama di vita" e dell'horror vacui di un broker assorbito dal culto di se stesso; nella pellicola di McKay, il cuore (e il bersaglio) del racconto risiede invece nella follia inconsapevole e autoalimentata di un sistema corrotto nelle fondamenta, come una gigantesca Torre di Babele inesorabilmente destinata al collasso. Si veda, a questo proposito, la breve ma significativa scena in cui Georgia Hale (un'irriconoscibile Melissa Leo), responsabile dell'agenzia di rating Standard & Poor's, giustifica senza battere ciglio l'illusorietà di un capitale puramente virtuale, gonfiato a dismisura fino a creare la famigerata "bolla" dei mutui subprime.
La danza macabra degli speculatori
Il paradosso alla base de La grande scommessa è sintetizzato pertanto dalla "posta in gioco" dei vari comprimari, ciascuno determinato a puntare il tutto per tutto su una terrificante possibilità: l'autodistruzione dell'economia americana. Un paradosso morale e pure narrativo, dal momento che lo spettatore, portato all'empatia verso questo ristretto gruppo di outsider, condivide con loro la scommessa contro Wall Street, contro gli investimenti di milioni di cittadini americani, contro un meccanismo finanziario che, nella sua letale deriva, non potrà non provocare danni irreparabili e vittime innocenti. E allora il film di Adam McKay, a dispetto (o piuttosto, in funzione) dell'ironia che correda ogni sequenza, assume i dolorosi contorni di una farsa nerissima, mentre il balletto a base di cifre, speculazioni e tecnicismi in cui sono coinvolti tutti i personaggi può essere assimilato a una "danza macabra" condotta sul cadavere ancora caldo dell'economia occidentale. Talmente caldo, da non aver ancora realizzato di essere morto.
Co-protagonisti di tale danza sono loro, gli "scommettitori" che hanno saputo vedere più a lungo di tutti gli altri, intuendo l'immensa portata di una catastrofe incombente (e come trarne vantaggio). E McKay, nella miglior tradizione della grande Hollywood, cuce su misura i singoli ruoli sui membri del ricchissimo cast a disposizione: dal co-produttore Brad Pitt, ovvero il disincantato ex banchiere Ben Rickert, ormai lontano dai clamori di Wall Street ma disposto a diventare il nume tutelare dei giovani Jamie Shipley (Finn Wittrock) e Charlie Geller (John Magaro), al geniale ed eccentrico Michael Burry (un Christian Bale sorprendente, una volta di più), il quale trascorre le giornate rinchiuso nel proprio ufficio ascoltando hard rock al massimo volume; dal paranoico investitore Mark Baum (un formidabile Steve Carell), affetto da innumerevoli idiosincrasie, al più controllato e pragmatico Jared Vennett (Ryan Gosling), spregiudicato investitore che si assume il compito di Virgilio nei confronti del pubblico e che, fra una strizzata d'occhio e l'altra, non ci risparmia un necessario monito: "Non ho mai detto di essere l'eroe di questa storia...".
Movieplayer.it
3.5/5