La falsa linea... Gothika!

Quando i fantasmi del cinema prendono il sopravvento ed importunano lo spettatore con falsi giochi visivi, non si può essere certi della differenza tra un vero film ed un semplice giocattolo...

Guardando il film di Mathieu Kassovitz, viene da pensare ad un film di Quentin Tarantino "thrillerizzato" piuttosto che ad una pellicola strettamente di genere. Non tragga in inganno il paragone avventato, ma è tale la volontà dell'autore de I fiumi di porpora di manipolare il materiale di base insieme al deliberato citazionismo (troppi i film evocati in Gothika, che quindi si propone come un incontrollato patchwork in cui vengono assemblati spezzoni di Shining e de Le verità nascoste, di The Ring e persino degli snuff movies oggetto del poco noto, ma interessantissimo, Tesis di Alejandro Amenábar). E' chiaro che la metafora è forzata, soprattutto perché Kassovitz e Tarantino operano su versanti diversi e con intenti opposti, ottenendo ad ogni modo risultati altrettanto divergenti. Gothika è, difatti, un film in cui il finto apparato figurativo dell'insieme vorrebbe assumere aspetti di dignità cinematografica.

Tutto risulta falso sin dal titolo. Gotici dovrebbero essere i bagliori elettrici di maniera (e quasi fantascientifici) che illuminano artificiosamente le prospettive stranite dell'istituto penitenziario di Woodward. Gotiche dovrebbero essere le ombre, che trasformano l'edificio stesso in una sorta di castello medievale con tanto di antiche volte in cui vengono perpetrati i più efferati crimini. Gotica, infine, dovrebbe essere la notte piovosa scossa dai lampi e dai tuoni ed "abitata" da una ragazza immobile, indifesa al centro della strada. Ma di veramente gotico c'è poco o nulla se non, appunto, il titolo.

Kassovitz, pur potendo contare sull'apporto dell'ottima fotografia di Matthew Libatique e su una Penelope Cruz finalmente in stato di grazia (Halle Berry è invece troppo accondiscendente ed esuberante nel suo ruolo, mentre Robert Downey Jr. è un oggetto estraneo, privo di mordente), finisce per concedersi troppo alle mode del momento. Il regista francese rinuncia (di proposito?) ad una sceneggiatura completa, per rimpiazzarne i vuoti con il calligrafismo delle vertiginose evoluzioni della macchina da presa (l'arrivo dello sceriffo Ryan nella sala colloqui è però di una fisicità impressionante).

L'assunto di fondo rimuginato da Kassovitz è quello della pellicola giocattolo confezionata come un blockbuster, in cui proporre stancamente, e con un'iniezione supplementare di dinamismo e di azione, il trend di successo delle ultime stagioni del thriller parapsicologico. La qualità, invece, resta miseramente imprigionata nelle tetre celle di Woodward, tra i fantasmi di pellicole che hanno un valore immensamente superiore.