Jane Campion e la necessità dei tagli...

Un serial killer, alcuni efferati omicidi, sesso e ancora sesso. Anzi. Sesso soprattutto. Jane Campion affronta il thriller per esorcizzare le (sue) fobie femminili. Ottenendo un risultato appena accettabile.

Jane Campion, è risaputo, cerca di mostrare nelle sue pellicole un interesse morboso per le pulsioni sessuali. Sostanzialmente, il motivo conduttore nell'opera della regista neozelandese è quello di scrutare con occhio clinico la femminilità nascosta o, peggio, repressa delle sue protagoniste, spesso indifese, ingenue e convenzionali "eroine" della quotidianità. Se in un film come Lezioni di piano il tutto funzionava abbastanza bene, in questa nuova fatica della Campion, invece, il fallimento è completo, e ciò a partire dal presupposto di fondo: il thriller. E già. Il film ha le pretese di essere un thriller a tutti gli effetti, con tanto di feroce serial killer, indagini a tutto spiano e relativa storia d'amore.

Ma è proprio sul fronte sentimentale che, nel caso di In the Cut, si gioca la carta della trasversalità, convogliando la storia, come spesso accade nelle pellicole di questa sopravvalutata cineasta (almeno per chi scrive), in un veemente affresco d'erotismo a tinte decisamente hard. Il film, purtroppo, è tutto qui. Ci si dimentica ben presto, infatti, che in città c'è uno spietato assassino di donne; ci si dimentica presto anche del fatto che Frannie (una Meg Ryan leziosa e spesso non credibile) potrebbe essere una delle prossime vittime del serial killer; e si vorrebbe dimenticare al più presto, invece, l'esasperante lentezza con cui la trama si snoda senza raggiungere, almeno di volta in volta, picchi d'intensità emotiva che concederebbero alla dilatazione dei tempi un significato superiore (come ha fatto, anche se in un contesto diverso, M. Night Shyamalan in un film bellissimo, e forse troppo sottovalutato, come Unbreakable - Il predestinato). Tutto quello che interessa a Jane Campion non è l'elemento narrativo che, difatti, viene lasciato sullo sfondo a vivere di vita propria e isolata. La macchina da presa è tutta protesa a scandagliare, in un perenne chiaroscuro, la sessualità negata di Frannie e le "acrobazie" erotiche che la protagonista, una volta "liberata" dalle sue inibizioni, compie con il detective incaricato ad indagare sul caso (un Mark Ruffalo a dir poco irritante). Restano ai margini della pellicola, invece, quelle che potevano essere le vere colonne portanti del film, ovvero Kevin Bacon e la sempre accattivante Jennifer Jason Leigh.

I tocchi di alta classe registica in ogni modo non mancano: penso all'intera sequenza iniziale, dove il ricordo di un fondamentale episodio accaduto ai genitori di Frannie assume, e in modo veramente "tagliente", toni di malinconica inquietudine (ma il peso di questo particolare momento rimane sostanzialmente un dato accessorio rispetto agli elementi principali del film); penso anche al perfetto ritratto dei bassifondi di New York, inquadrati in una penombra sporca, malata, maledetta, e dunque in modo assolutamente coerente con le caratteristiche del romanzo di Susanna Moore (Dentro) da cui è tratta la sceneggiatura del film. Ma penso, altresì, che sarebbero tante, troppe le parti della pellicola che occorrerebbe "tagliare", o anche solo revisionare, per darne un giudizio pienamente positivo.