Recensione In the cut (2003)

In the cut, ultima opera della regista culto di Lezioni di piano, è un film personale, femminile e estremamente sensuale. La Campion ci accompagna per mano in un mondo nuovo, aprendoci le porte sull'esistenza di una donna algida e appassionata allo stesso tempo.

Rosso sangue

E' stato presentato come il perfetto connubio fra la sessualità di Nove settimane e mezzo e la morbosità di Seven.
Niente di più sbagliato. In the cut è solo l'ultimo capitolo di una ricerca stilistica, estremamente personale, intrapresa da Jane Campion, regista acclamata del film capolavoro Lezioni di piano.

Il risultato non ha niente a che vedere con gli esempi riportati negli strilli di copertina; In the cut è assolutamente femminile, in contrasto con il cinema che spesso invece riporta solo un punto di vista estremamente maschile, senza per questo essere maschilista. Quella della Campion è una sensualità morbida, scivolosa, non ha niente di ginecologico e tratta la morbosità come qualcosa non di disfunzionale, ma di perennemente presente nella vita di ognuno di noi.
La protagonista, Frannie (una Meg Ryan in un ruolo per lei insolito ), è un'algida insegnante, fredda e pungentemente ironica, che trova nel sesso l'unico elemento che possa scuotere la sua vita, fino a che non sarà coinvolta nelle indagini riguardanti un orribile omicidio. E' così che conosce l'ispettore Malloy (Mark Ruffalo).

Susanna Moore e la Campion stessa, autrici della sceneggiatura, creano qui un personaggio estremamente evocativo per tutte le donne; Malloy incarna infatti sia il più perverso sogno femminile che l'incubo sentimentale più spaventoso. Un carattere ambivalente che impedisce a Frannie stessa di fidarsi di lui, benchè ne sia follemente attratta.
Ma il rapporto amoroso/sentimentale/fisico fra i due personaggi non prende tutta la storia, così come non è solo un particolare posticcio creato ad arte per stuzzicare gli spettatori. Tutto fa parte di un'atmosfera torbida che racchiude la vita di Frannie. Anche la fotografia di Dion Beebe opera in questo senso: i giorni sono una distesa di attimi polverosi, le notti più che scure sono torbide. Persino i colori sono appannati, come se la vividezza e l'entusiasmo fossero astrazioni impossibili. Si salvano solo alcune, singole immagini, quasi esperimenti subliminari: una donna che corre, un giocattolo canterino, un'enorme corona di rose, tutti accomunati dall'unico colore acceso possibile, il rosso. Rosso come la passione ma anche come il sangue.
La Campion si sofferma su questi particolari, preferendo non indulgere in riprese spaziose ma costruire perfetti collage di singoli frammenti. Così mentre ricostruisce la dinamica dei delitti, allo stesso tempo ricostruisce anche la vita della protagonista.

In questo film tutto coinvolge, tutto emoziona, tutto viene persino giustificato, come se la dicotomia normale/anormale fosse solo qualcosa di esterno a noi, non esistente sul piano della realtà.
I personaggi riescono a coinvolgerci, a catturare il nostro pensiero, ben serviti da una recitazione trattenuta e mai sopra le righe. Anche Meg Ryan riesce bene a calarsi nei gelidi panni di Frannie, anche se si notano a volte alcuni scivolamenti nelle sue celebri "mossettine".
E uno scivolamento lo subisce anche tutto il film; quello che era un affresco ben costruito, nel finale non riesce a mantenere le stesse alte prospettive e si adagia nel banale filone del giallo, mentre scompaiono personaggi fino a quel momento rilevanti, lasciando un pò di amaro in bocca.
Una pellicola comunque interessante e che apre una porta su tutto un altro modo di guardare la vita.